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Paragone loda Berlusconi: l'ultimo colpo di genio è stato sulla guerra e aveva ragione

Gianluigi Paragone
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Ricordo quando sulle colonne di questo giornale commentavo quello che Berlusconi ebbe a dire ai suoi parlamentari a proposito dello scenario di guerra in Ucraina, dandogli ragione. Lo fece a suo modo, scuotendo e provocando, ma rivelando ancora una volta la sua capacità di visione oltre il consentito. Del resto questa era la sua caratteristica: sparigliare per creare una nuova occasione. Lo aveva fatto nel difficilissimo mondo della tv dove la Rai si sentiva troppo sicura e non poteva immaginare che un modello commerciale avrebbe stravolto il mercato a colpi di quiz e serie tv o film reaganiani, di show leggeri e linguaggi giornalistici più veloci. Lo aveva fatto ancor prima creando Milano 2 con una idea inedita di edilizia. E poi ancora nel calcio, stravolgendone la filosofia finora dominante del gioco all’italiana legando il suo nome di presidente a un allenatore ostinato come lui, Arrigo Sacchi. Arrivarono vittorie e quindi consensi, come accadeva all’Avvocato certo, ma come aveva visto fare molto tempo prima allo zio di Fedele Confalonieri che dal «loro» quartiere Isola sfollò alla volta di Comerio nel varesotto per impiantare una fabbrichetta; quel signore si chiamava Giovanni Borghi e l’azienda Ignis.

 

 

L’altro grande spariglio Silvio lo fece - com’è noto - con la politica, non solo perché fondò Forza Italia ma anche perché cambiò la semantica, la grammatica, lo stile: si passava dal latino (a tratti anche latinorum diciamo...) della Prima repubblica, al volgare della Seconda; dal partito-centrismo al leaderismo. Indietro non torneremo o almeno non a breve. Insomma, Berlusconi quando decideva di cambiare passo scaricava a terra tutta la sua forza. Costringendo all’inseguimento. Per questo, l’ultimo spariglio non gli poteva riuscire: non aveva più le forze e attorno aveva gente impaurita da quell’azzardo.

 

 

«Silvio, lascia perdere con questa storia di Putin: stavolta non possiamo seguirti», gli dicevano tutti coloro che non avevano capito ciò che era la visione del Cavaliere limitandosi allo schema «con Putin o con Zelensky. «Quando la guerra terminerà e sarà il tempo della mediazione e poi della ricostruzione noi saremo fuori perché non abbiamo avuto il coraggio di guardare oltre, da protagonisti», cercava di spiegare. E aveva ragione: gli italiani sono riconosciuti come popolo di mediazione e di amicizia, non di belligeranza. Ecco perché dovevamo insistere con il tavolo di mediazione e non con l’invio delle armi, nello spirito di Pratica di Mare. «Putin ha invaso l’Ucraina, non possiamo», ribattevano. «Proprio perché c’è una guerra, c’è bisogno di un metodo di trattativa», replicava testardo. Aveva talmente ragione che infatti si beccò l’ultima scarica di «massaggi». Stavolta però non aveva forze per reagire e imporre lo spariglio. Un giorno ricorderemo che aveva ragione.

 

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