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Le auto elettriche non sono più ecologiche: fanno più male del vecchio diesel

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Stefano Cianciotta
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Quanto fa male il diesel? Assai meno di altre forme di alimentazione, elettrico in primis. E allora perché staccargli la spina proprio ora che la tecnologia lo ha ripulito di ogni scoria radioattiva e che, dati alla mano, in chiave di efficienza non ha eguali? Perché abbandonare una tecnologia che ha compiuto progressi ecologici enormi, e che soprattutto ha ancora mercato? Questo nel giugno del 2019 era il pensiero di Gerard Dambach, in quel momento amministratore delegato di Bosch Italia, che già allora esprimeva tutte le sue perplessità sull’auto elettrica, a causa della difficoltà nella ricarica, pubblica e privata, per l’autonomia ancora insufficiente per i viaggi a lungo raggio, un grado di inquinamento che considerando l'intero ciclo vita di un modello sarebbe stato superiore a quello generato da un’auto a combustione interna.

Il manager tedesco si spingeva oltre, immaginando sul fronte occupazionale la diminuzione solo in Italia di 150.000 posti di lavoro, e spiegando che in Scandinavia il mercato dell’elettrico stava reggendo alla concorrenza delle altre automobili esclusivamente grazie alla politica degli incentivi. Né più né meno quello che a distanza di qualche anno si sarebbe ripetuto anche in Italia e nel resto dell’Europa. Un motopropulsore a combustione è costituito da circa 12.000 componenti. Per quello elettrico ne servono poche centinaia. A questo si aggiunge la necessità di ricorrere a nuovi materiali, per alleggerire il veicolo nell’ottica del risparmio energetico e poi perché alcune parti non serve più farle così consistenti.

Finora l’industria italiana è stata un’eccellenza mondiale nella componentistica dell’automotive. Le imprese di fonderia sono fornitori di primo piano per tutta la filiera industriale. Non solo in Europa e non solo come qualità del prodotto. Lo dimostra il loro impegno nella sostenibilità e nella riduzione delle emissioni. La rivoluzione della mobilità, che chiama in causa la conformazione del prodotto, richiede certamente un cambio di prospettiva all’interno delle aziende europee, ma non necessariamente una rinuncia al nostro primato tecnologico, che la decisione dellaUE di mettere albando le autovetture con il motore a combustione dal 2035 sembra in effetti volere ridimensionare, a vantaggio di altri competitors.

Molte delle novità che queste regole vogliono imporre sono assolutamente discutibili, a cominciare dal fatto di non essere state discusse in anticipo tra i cittadini, che stanno subendo il diktat ideologico del movimento ambientalista. Così come nel caso della direttiva comunitaria green sulla riqualificazione del patrimonio immobiliare, anche nel caso della fine delle autovetture a combustione l’Europa non tiene conto e ignora in modo irresponsabile l’inevitabile impatto che avrà sulle abitudini di vita proprio dei cittadini.

La transizione verso un’economia sostenibile basata sulla tutela dell’ambiente è soprattutto una sfida culturale, ma non possono essere il patrimonio immobiliare privato o il ridimensionamento di una filiera industriale così composita a farsi carico di questo passaggio nodale. Non vorremmo davvero che il simbolo della nuova Europa, un tempo rappresentato dall’Atomium di Bruxelles e dagli accordi di Parigi per istituire la Comunità europea dell’Acciaio e del Carbone, oggi fosse una batteria al litio made in China.

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