il commento
La scarsa affluenza alle elezioni è un segnale pericoloso per la democrazia
Che il centrodestra vincesse nel Lazio e in Lombardia non era assolutamente in discussione, tanto che il dibattito era più sul peso dei partiti all’interno delle coalizioni. Quel che interessava (spero non solo a me) era la tenuta della democrazia alla prova del voto. Purtroppo il voto, inteso come strumento di partecipazione alla vita politica, è fortemente in crisi e potrebbe entrare in una spirale irreversibile. È un po’ come gli ascolti al festival di Sanremo dove ci si bea di uno share importante, magari record, sapendo che però la platea totale di cittadini sintonizzati è decisamente calata. Con le elezioni è un po’ lo stesso: gli elettori calano vistosamente e ai politici non resta che crogiolarsi con le percentuali. Il voto come espressione della propria opinione e del proprio orientamento si depotenzia con il rafforzamento di altri strumenti comunicativi ritenuti più efficaci e ancor più identitari. Il voto di opinione è la rappresentazione di una propria idea, del proprio convincimento; è la manifestazione del nostro pensiero che si proietta, attraverso le elezioni, nella formazione del parlamento e del governo, istituzioni alle quali si riconosce l’importanza sancita in Costituzione inteso come luogo dove l’orientamento, le idee e le opinioni del popolo sovrano trovano rappresentazione. Voglio pagare meno tasse? Voglio una maggiore tutela sul lavoro? Voglio politiche migratorie più rigorose oppure più inclusive? Voglio più sicurezza e quindi più forze militari come presidio nelle città? Voglio una maggiore tutela verso la natura e gli animali? La mia volontà si riversa su un partito o su un movimento il cui programma d’abbina al mio pensiero.
Questo feeling è entrato in una crisi profonda. Cosa sta accadendo negli ultimi anni? Che la «mia» opinione riesce a trovare più sbocchi rispetto a quando il canale pressoché esclusivo era il partito. Mi spiego. Oggigiorno le mie idee possono sì convergere in un percorso di partito, ma possono anche maturare in un movimento, in un gruppo più settoriale e quindi più piccolo ma più attivo; oppure possono restare isolate in una comunicazione social dove il mio pensiero incrocia altre «bolle». Il voto non basta quando ho la possibilità di usare la mia tribuna: posso fare dirette, posso fare comunicati, posso dire come la penso tutte le volte che voglio, con l’illusione di confrontarsi alla pari. I cittadini che oggi non votano lamentano l’omologazione sostanziale dei due blocchi e l’inutilità delle istituzioni rispetto ad esigenze che crescono, si aggravano e che «nessuno risolve». Fintanto che il palazzo penserà che questo sia populismo, allora i numeri dell’astensionismo resteranno alti. E il pacchetto dei votanti si distribuirà tra chi ancora «abita» nell’appartenenza ideologica e vive la competizione elettorale come una gara, e tra chi è impigliato nelle dinamiche del voto di scambio o dei pacchetti di voti. Lo dico con chiarezza: chi ha pacchetti di voto suoi propri o chi gestisce il voto di scambio ha la golden share della politica, delle elezioni. Della democrazia rappresentativa. Il voto di opinione, al momento, è basso. E lo sarà fintanto che non si realizzano tre condizioni: 1)tornare a un sistema proporzionale con soglia di sbarramento accessibile e che dunque consenta un diritto di tribuna a chi è minoranza ma vuole essere parte della vita politica; 2)semplificare le modalità di accesso alle competizioni elettorali per evitare che il gioco sia condizionato da chi non vuole una concorrenza politica; 3)elezioni di metà mandato come check del lavoro svolto.
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Personalmente ne aggiungerei altri due: il numero dei seggi a disposizione è assegnato proporzionalmente al quorum raggiunto (il resto non viene occupato se non alle elezioni di metà mandato laddove vi fosse una partecipazione maggiore); e un limite imposto dai partiti a non presentare oltre un certo numero di legislature le solite persone. Post Scriptum. Se il Presidente Mattarella si fosse degnato la scorsa estate ad ascoltare - solo ad ascoltare - la voce dei piccoli partiti oggi esclusi dal parlamento oggi avrebbe meno responsabilità rispetto al calo dei votanti. Invece al bis-presidente la dialettica democratica non piace. Preferisce il festival e chi suona lo stesso suo spartito.