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La canzone del Superbonus: “Quelli tra Conte e realtà”. Misura inutile e insostenibile

Alessandro Usai
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In questo clima sanremese manca forse all'appello una canzone: «Quelli tra Conte e realtà». Il festival del populismo che spesso sfocia nel qualunquismo ha probabilmente nel solista Giuseppe Conte il suo miglior cantautore. Da una parte ci sono le sue mirabolanti performance, dall’altra la dura realtà dei fatti. La nota più stonata è quella del Superbonus 110%, misura di incentivazione introdotta il 19 maggio 2020 dal suo governo. La filastrocca sembrava orecchiabile: volete ristrutturare casa con detrazioni e rimborsi per migliorare l’efficienza energetica? Nessun problema. Non sborsate una lira. Paga tutto lo Stato. Anzi, se spendete 100, vi ridaremo 110. E così tutti felici, proprietari e condomini hanno fatto la fila per fare le domande e avviare i lavori. La canzone di Conte, Giuseppe non Paolo purtroppo, ha fatto prima cantare migliaia di italiani per poi farli ballare tra debiti, cause e burocrazia. Lo aveva capito Mario Draghi che infatti era corso ai ripari inserendo alcuni paletti. Lo ha capito anche Giorgia Meloni che ha interrotto questo perverso meccanismo che porta solo guai. La strofa di Conte era intonata su numeri sbalorditivi ma con poco fondamento: 900 mila nuovi posti di lavoro, 43 miliardi nelle casse dello Stato, una crescita del 22 per cento sul pil grazie agli incentivi e un risparmio di 500 euro l'anno sulle bollette delle famiglie. La realtà è stata diversa. Carta canta.

 

 

Il Superbonus ha pesato sulle casse dello Stato per circa 60 miliardi di euro e nel giugno 2022 la misura è stata bocciata anche dalla Corte dei Conti. Messi da parte illeciti miliardari derivanti da crediti inesistenti denunciati dall'Agenzia delle Entrate, il Superbonus 110% è stato pensato male e realizzato peggio. Elimina qualsiasi incentivo alla contrattazione sul prezzo dei lavori, con effetti inevitabilmente inflazionistici, agevola le fasce di reddito più elevate e ha raggiunto circa l’1 per cento degli edifici. Una misura economicamente insostenibile e politicamente molto costosa da smantellare che ha lasciato in eredità un buco di circa 38 miliardi. Un fallimento su tutta la linea. Quasi 90 mila cantieri bloccati,15 miliardi di euro di crediti fiscali incagliati, migliaia di cause legali. Un bel capolavoro.

 

 

Come quel cantante che invece di suonare una bella canzone si mette a sfasciare il palco. E non contento tira pure oggetti al pubblico che ora deve schivare i pericoli. Una stima di Federica Brancaccio, presidente dell’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) indica in 25 mila le imprese a rischio fallimento, spazzando via 130mila posti di lavoro. Non solo. Si sono avviati contenziosi tra condomini e ditte, tra progettisti e inquilini, tra aziende e banche. Un successone. Ma del resto, come poteva funzionare una melodia sempre uguale a se stessa? Non si crea lavoro con un decreto e non si crea ricchezza con una spesa pubblica improduttiva. Ma la litania di Conte è diversa, suona un’altra musica rispetto alla realtà. Sembra pure credibile nei primi accordi. Ma alla fine lascia pietrificati. Meglio non chiedere mai il bis.

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