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Guerra in Ucraina, Zelensky a Sanremo segno di debolezza: è disperato
Se fossi in Zelensky alla serata conclusiva del festival di Sanremo non manderei alcun saluto, alcun video. Insomma non manderei un bel niente. Non per le polemiche sull’uso strumentale del palco sanremese, quanto perché andarci significa dimostrare la propria debolezza, disperata, per uscire dalla quale serve una chiamata alle armi mondiale. Quindi un allargamento alla Nato e un allungamento del conflitto che nessuno vuole. Cioè l’opposto di quel che gli italiani vogliono. Lasciamo perdere le riflessioni sulla propaganda e sull’opportunità di essere presente anche lì: il festival di Sanremo è stato usato dalla politica per passerelle, dai sindacati per accendere i riflettori su storie di lavoro o rinnovi contrattuali, da disperati che minacciavano suicidi e da esibizionisti di ogni risma per qualche secondo di celebrità. Ognuno insomma aveva un motivo per farsi vedere. Il presidente ucraino non sarà da meno: è un attore che cerca di pizzicare ogni tipo di corda emotiva per vincere la guerra, e lo fa ovviamente usando lo spartito più agevole ossia quello della divisione tra buoni e cattivi, tra bene e male.
Con questo canovaccio è andato ovunque, mescolando assemblee elettive, grandi organismi internazionali, eventi mondani e manifestazioni pop. Un po’ perché ormai gli piace (ricordiamoci che fino a poco tempo fa era un attore di mestiere), un po’ perché è funzionale alla causa di solidarietà al popolo ucraino e un bel po’ perché è questo quel che gli americani gli hanno chiesto di fare: il frontman della posizione Giusta. Il problema però è che il «troppo» alla fine produce distorsioni e si incrina. Entrando ancora una volta dall’accesso del pop, Zelensky dovrà fare i conti con tutte le letture del pop stesso: la gente guarda Sanremo per distrarsi, per alleggerirsi, e non vuole essere giudicata per questo; il telespettatore ama queste edizioni del festival perché sente di contare come giurato e ogni gara replica un meccanismo di sconfitta e di vittoria, concetti che con l’ombra della guerra (dopo il Covid) cambiano di peso. E poi c’è un altro discorso, il più importante e il più politico: agli italiani la guerra fa paura, inquieta, per questo non vogliono destinare altre armi in Ucraina (il governo stia attento ad appiattirsi sulle posizioni della Casa Bianca). I timori che la pace si allontani; che la mediazione non sia ciò per cui le parti lavorano e che sulla pelle dei cittadini inermi stiano «giocando» titolari di ben altri interessi; e che infine i media stiano raccontano una verità che non è vera, sono timori reali.
Il sondaggio di ieri curato dalla Ghisleri per la Stampa è un interessante e non scontato spaccato sociale circa il sentimento degli italiani rispetto alla questione Ucraina: prevale la paura di finire dentro un crinale belligerante imprevedibile alimentato dalle armi e soprattutto un coinvolgimento della Nato come parte attiva. Gli italiani non credono più al semplicistico schema Buoni e Cattivi, Giusto e Sbagliato, perché avvertono le diverse sfumature di una guerra che va avanti da troppo tempo e della quale stiamo pagando tutti un prezzo. Non è vero che la Russia era alle corde, non era vero che le sanzioni avrebbero indebolito l’economia russa, non era vero che la chiusura dei rubinetti russi rispetto a gas e petrolio sarebbe stata risolta grazie all’intervento dei Paesi amici; è invece vero che gli italiani stanno pagando il prezzo di scelte politiche poco condivise dal popolo sovrano. Agli italiani l’invio delle armi non è mai andato giù, né hanno mai chiesto di assumere una posizione netta. Il simbolo di tali inquietudini e angosce è Zelensky, il cui iperattivismo mediatico e iconico oggi gli si riversa contro. Per molti italiani il presidente ucraino, ben manovrato dalla casa Bianca, spinge verso latitudini pericolose e preoccupanti: più armi e sempre più impattanti, niente dialogo con Putin, copertura aerea, allargamento della compagine dei Buoni. Zelensky al festival sicuramente non entrerà nel merito di questi punti ma si limiterà a irrobustire, approfittando dell’allegria sanremese, il senso di «peccato» e di «ingiustizia» verso gli italiani che guardano la tv mentre gli ucraini sono le bombe. Il che è vero ma non è un vero assoluto: se il conflitto non è ancora finito un pezzo di responsabilità è anche suo. Gli italiani che lo pensano sono sempre più numerosi. Ecco perché il palco sanremese non sarà quel toccasana che Zelensky spera. Per questo non manderei né video né messaggi.
Ps. La Rai non torna indietro sulla decisione perché è dall’inizio della guerra che regge la propaganda americana con un’informazione che di giornalismo non ha più nulla.