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Il fallimento del Pd affonda nelle origini: è un partito mai nato davvero

Riccardo Mazzoni
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Se il Pd oggi viene ritenuto in liquidazione e in preda a una crisi irreversibile, i motivi vanno ricercati nel fallimento del manifesto fondativo precocemente abbandonato, per cui - estremizzando la tesi dalemiana dell'amalgama non riuscito - si può dire che quello prefigurato da Veltroni al Lingotto è a tutti gli effetti un partito mai nato. Una volta detronizzato, il primo segretario cercò inutilmente, per qualche tempo, di riaffermare la validità del suo programma politico, spiegando che «credere di aver perso con il 33 per cento è stato un errore» e puntando il dito su «un partito che ha sostituito il centralismo democratico con quello meno democratico delle correnti». Si disse «meravigliato» della dilagante nostalgia per l'Unione, aggiungendo che «il rifiuto del bipolarismo è la tomba del Paese. Se si torna alle coalizioni si va verso l'inferno». Si disse inoltre «perplesso» quando Bersani propose di separare la figura del segretario da quella del candidato premier, perché conteneva l'idea del ritorno ai governi di coalizione, dove si contratta dopo il voto e decidono tutto le segreterie dei partiti. E trovò paradossale l'abiura della vocazione maggioritaria, «che non è solitudine arrogante: o c'è o non c'è il Pd». Non facendosi, infine, mancare un commento sul nuovismo, che secondo Bersani era la malattia infantile del Pd. «Il nuovismo, come tutti gli ismi, può essere un'ideologia. Ma quando il "basta con il nuovismo" è difesa di quello che c'è, allora è profondamente sbagliato».

 

 

Di fatto, però, la vittoria di Bersani significò il ripudio del modello di partito che Veltroni aveva cercato, pur fra mille contraddizioni, di cucire addosso alla fusione tra Ds e Margherita: un partito «all'americana», pensato per un sistema sostanzialmente bipartitico, in cui il leader fosse un vero capo e il naturale candidato alla premiership, e in cui a contare non fosse più il pesante apparato dei funzionari e dei quadri organizzati, ma l'opinione degli elettori, in rapporto diretto - attraverso le primarie - con il leader. Un partito, appunto, avocazione maggioritaria, che «rifuggisse come l'inferno» il ritorno al gioco delle ammucchiate anti-Berlusconi. Non solo: l'obiettivo originario di Veltroni era anche quello di impostare su una chiave nuova il confronto fra destra e sinistra per aprire finalmente una stagione di riforme condivise. Sappiamo come andò: l'alleanza elettorale con Di Pietro fu il primo passo falso, seguito da una serie di rovesci elettorali che portarono al cambio repentino di segreteria. Ma è indubitabile che la strada per modernizzare la politica italiana era quella, e che Veltroni aveva dato un contributo importante a costruire finalmente una «nuova» sinistra.

 

 

Rileggendo le cronache di allora, si scopre che in oltre un decennio nel Pd non è cambiato assolutamente nulla: «Basta divisioni! - scongiurava Veltroni - basta attaccarci fra di noi! Mi sento come Penelope. Occupiamoci dell'Italia, siamo al paradosso di una destra che attacca il Pd e del Pd che attacca sé stesso». E il suo avversario storico, D'Alema, gli faceva eco: «L'importante è non andare avanti così: noi ci dividiamo, siamo inchiodati per mesi su una discussione congressuale, e rischiamo di non fare più l'opposizione...». Un appello che potrebbe essere riproposto senza cambiare una virgola alla tormentata vigilia congressuale del 2023. Nel frattempo, la debolezza endemica del vertice romano, perennemente occupato - di sconfitta in sconfitta - a silurare il segretario di turno e a spartire i ministeri fra le correnti, ha lasciato campo libero ai «cacicchi» di periferia, i quali hanno potuto dare il peggio di sé senza più alcun controllo, con un'attitudine patologica all'uso del potere figlia di un radicato sistema clientelare. Ora siamo all'anno zero, e il comitato costituente chiamato a riscrivere la carta dei valori del partito è la cartina di tornasole della regressione politica in atto: il manifesto del Lingotto è stato addirittura bollato come «ordoliberista», mentre forse la crisi del Pd iniziò proprio per la sua mancata attuazione.

 

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