Elly Schlein, la resistibile candidatura alla segreteria Pd
C'è stato un passaggio ai limiti del surreale alla convention in cui Elly Schlein si è candidata alla segreteria del Pd: quando la pasionaria della sinistra radicale ha annunciato, nientemeno, che questa stessa settimana prenderà la tessera del partito che intende guidare, e non per iscriversi alla partita congressuale, ma «per rispetto a questa comunità». Magari anche in omaggio al minimo etico della decenza politica, si sarebbe potuto aggiungere mentre tutti intonavano l'immancabile «Bella ciao» per battezzare la discesa in campo della papessa straniera.
Laddove non è chiaro chi fosse l'invasore da combattere: esclusa evidentemente lei, che pure da esterna il Pd ha detto di volerlo invadere, nel mirino della folla plaudente probabilmente c'era la vecchia e immarcescibile nomenklatura rimasta a galla da quando è stato fondato il partito e per nulla disposta a mollare la presa. Ma «Bella ciao», si sa, al Nazareno è un inno buono per tutte le stagioni, anche quando non c'è la destra di mezzo: serve a riscaldare i cuori, anche perché la traversata nel deserto iniziata dopo la dura sconfitta del 25 settembre rischia di essere l'ennesima, deludente manfrina trasformista, con un congresso in cui il patto di sindacato tra le correnti fingerà di dividersi tra chi cavalca il vento del rinnovamento e chi punterà sul ticket Bonaccini-Nardella con l'unico, comune obiettivo di non cambiare nulla.
Da una parte la fantasia al potere dell'outsider, dall'altra il potere costituito sui territori con in palio un partito malridotto ma ancora appetibile nonostante le opa ostili di Conte e Calenda, visto che per ora lo zoccolo duro stimato dai sondaggi resta sopra il 15 per cento. Ma le tappe di avvicinamento al congresso, più che un inizio di ravvedimento operoso, sono apparse semmai una regressione politica rispetto al tentativo originario del Lingotto veltroniano di dotare la sinistra italiana di una forza autenticamente riformista.
Letta ci ha messo ancora una volta del suo: ha annunciato che non si ricandiderà ma si è concesso un lungo interregno per indirizzare il percorso verso la nuova fase, mettendo insieme un comitato per riscrivere il Manifesto dei valori che come primo atto ha sconfessato proprio i principi elaborati dai saggi del 2007 per i loro contenuti «ordoliberisti». Da segretario del «partito di Draghi», insomma, a fautore di una svolta massimalista attraverso prima l'accordo elettorale con la sinistra di Bonelli, Fratoianni e Soumahoro, e ora con i tappeti rossi stesi agli scissionisti di Bersani e Speranza, con un occhio di riguardo ai Cinque Stelle di Conte con i quali aveva fragorosamente rotto a causa della crisi di governo.
Di «contrordine compagni» è segnata da sempre la vita del maggior partito della sinistra, ma quando si tocca il minimo storico servirebbero un leader, un'identità precisa e una rivendicazione di valori irrinunciabili, non un dibattito che ripropone i soliti schemi e con le correnti come convitato di pietra.
In questo magma indistinto, quella di Elly Schlein si annuncia dunque come una resistibile ascesa. Il suo sbandierato pacifismo - è uscita dall'aula di Montecitorio per non votare col gruppo Pd gli aiuti all'Ucraina - e la sua storia palesemente antiriformista non le sono finora valsi l'appoggio esplicito dell'ala filogrillina, e chi già la individua come il granello che bloccherà l'ingranaggio delle correnti per rottamare con un colpo di spugna la vecchia classe dirigente ha preso presumibilmente un abbaglio. Un sospetto peraltro avvalorato dal silenzioso endorsement arrivato a sorpresa da un capocorrente doc come Franceschini.
Vedremo, dunque, se il Pd per scongiurare la sindrome del suo omologo francese - il Ps - ridotto a un cespuglio politico da Macron e Melenchon, affiderà le sue sorti alla giovane paladina della vecchia ideologia o all'usato sicuro ma logoro dei territori come chiave della riscossa. Due opzioni, però, che appaiono entrambe insufficienti per arginare una crisi così profonda e strutturale.