Soumahoro, la tv dei buonisti genera incubi. Paragone sotterra la sinistra
Non ne godo affatto però la storiaccia che coinvolge Aboubakar Soumahoro è figlia della sinistra da salotto e del suo più cronico dei mali, l'ipocrisia. Per far parte di questo club incipriato non è necessario avere la tessera (aiuta), basta una dose sufficiente di furbizia, una ottima dose di menefreghismo e tanto tempo da perdere dietro cene e incontri vari. Inoltre vanno sfatati due luoghi comuni: il primo è quello della preparazione culturale, il secondo della passione per le battaglie.
Sulla preparazione culturale del fighettume de sinistra basta recuperare il titolo di un film di Vanzina (tranquilli, sanno di cosa parliamo): «Sotto il vestito niente». Loro sono fatti così: strutturati come la carta velina, tanta apparenza e poca sostanza. Non devono lottare per farsi valere: ci pensa il club a metterti in vetrina. O a costruire la candidatura trend.
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Sulla sostanza... che dire? Danno pagelle, dividono il loro cast in buoni e cattivi, tengono su di giri la produzione intensiva di finti eroi, di buoni d'allevamento utili per fare le trasmissioni e creare quello che Gaber appellava il potere dei più buoni. Non a caso, Gaber fu poi ghettizzato dal club della sinistra salottiera. Soumahoro è il prodotto di questa filiera: dalle lotte al Parlamento, perfetto per il marketing della... Propaganda.
Finché regge; perché il club sapendo che la ditta non può fallire - come ti genera così ti sputa, ti mette fuori catalogo quando diventi imbarazzante. Aboubakar è un lotto uscito male, anche se ora va difeso per non sputtanare l'intera compagnia di mammalucchi col pugno chiuso e il portafogli gonfio.
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Altro che «Uomini e No», copertina di un vecchio numero dell'Espresso, allora diretto da Marco Damilano. Sull'Espresso Soumahoro aveva una rubrica, dove predicava il vangelo del buon pastore, di sindacalista degli ultimi, di esemplare compagno che non teme di alzare il pugno. Ora, quello stesso l'Espresso dovrà raccontare che nella colonnina dei cattivi quella dove infilavano i razzisti, i fascisti, i cattivi senza cuore che respingono il prossimo - ci finisce il loro prodotto per colpa di una cooperativa allegra e di parentele poco scrupolose rispetto al vangelo di Aboubakar.
Sulla vicenda stanno uscendo particolari sempre più imbarazzanti, perché li hanno taciuti? Secondo alcuni, Fratoianni sapeva tutto ma aveva bisogno della statuina del bel presepio; e poi mai avrebbe sognato che il giocatolo si rompesse. Tutti sapevano, bastava prendere ciò che i braccianti - quelli con i veri stivali sporchi di vero fango - avevano già raccontato; nessuno ha ascoltato. Non li avevano ascoltati quelli di FanPage, denunciano alcuni braccianti; e chissà quanti altri non hanno voluto raccogliere ciò che emerge con serialità impressionante. Fratoianni e i compagni sapevano? Il marketing del buonismo de sinistra sapeva? A sentire i diretti interessati sapevano tutti ma alla sinistra da salotto non interessano le battaglie interessa il prodotto della catena di montaggio: Soumahoro sì, i lavoratori no. Gli stivali come gadget della battaglia prevalgono sugli stivali dei braccianti. Il gadget diventa prodotto, questo è l'insegnamento degli ideologi del club.
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Marco Damilano oggi non dirige più l'Espresso, ha trovato una trasmissione ben pagata su Raitre e nessuno ha fatto polemiche sugli esterni: quando si hanno le spalle coperte dai Buoni tutto è lecito. Come lecite sono le esternazioni di Roberto Saviano contro la Meloni e Salvini; o le lezioni domenicali di Burioni e di Cottarelli, ospiti della Faziosità, della Propaganda e dell'Aria che tira dalle parti del Parioli Party. L'ipocrisia di questa macchina editoriale ha fatto cilecca e s' affanna nella difesa del prodotto, derubricando i fatti e puntando l'indice sui veri cattivi (che nel frattempo loro per decenni hanno tenuto in vita per esigenze di mercato). Per come la vedo io i buoni che sbagliano sono peggiori dei cattivi e l'industria del marketing buonista replica lo schema degli spacciatori: avvelenano e controllano il mercato. Falsi predicatori con le chiavi del tempio in mano.