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L'autonomia delle Regioni esame di maturità per tutti

Riccardo Mazzoni
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Il dossier sull’autonomia differenziata ha già scalato l’hit parade dei problemi di maggioranza e non è certo una sorpresa, trattandosi da sempre di un tema divisivo in modo trasversale. La bozza su cui sta lavorando il ministro Calderoli è finita nel mirino con l’accusa di scavare un ulteriore solco tra nord e sud, in particolare nella definizione dei livelli essenziali di prestazione su cui calcolare i trasferimenti dei fondi statali alle singole Regioni per coprire le competenze cedute.

La bozza prevede infatti che prima del recepimento delle intese i trasferimenti siano calcolati secondo la spesa storica consolidata nel tempo, criterio contestato perché perpetuerebbe sperequazioni che sono invece da riequilibrare. Ci vorrà dunque una paziente opera di mediazione per risolvere il rebus, partendo però da alcuni punti fermi: la concessione dell’autonomia è prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, per il quale le Regioni con i bilanci in ordine possono chiedere di vedersi assegnate maggiori competenze rispetto a quelle ordinarie. La scuola, ad esempio, è una competenza statale che le regioni virtuose possono chiedere di gestire direttamente. Le richieste di autonomia scaturite dai referendum di cinque anni fa non oltrepassano quindi i limiti costituzionali, e possono essere l’occasione per mettere finalmente ordine nelle contraddizioni che hanno accompagnato le Regioni dal 1970 a oggi: è dalla loro nascita che viene richiamata l’esigenza di una maggiore efficienza ed economicità di gestione, come di una migliore coesione territoriale a partire dai livelli essenziali delle prestazioni.

 

 

 

Ma la storia è andata in tutt’altra direzione, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2001, con il pasticcio della legislazione concorrente tra Stato e Regioni che ha portato a un’infinità di contenziosi davanti alla Consulta senza risolvere i problemi storici. Intervenire è dunque necessario, ma va trovato un punto di equilibrio finalmente virtuoso: il principio di solidarietà è sacrosanto, ma la solidarietà senza responsabilità trasforma lo Stato sociale in Stato assistenziale, e l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Italia sarebbe un federalismo clientelare. All’Italia però non serve una «secessione dei ricchi», ma una riforma che realizzi un federalismo responsabile che porti a una competizione solidale tra le Regioni che garantiscono servizi efficienti rispettando l’equilibrio finanziario e le altre, favorendo lo sviluppo di forme di regionalismo differenziato non solo per le regioni del nord. L’autonomia deve costituire lo strumento per responsabilizzare i territori e le classi dirigenti e aprire una stagione di efficienza e solidarietà contribuendo allo sviluppo di tutto il Paese.

I governatori del nord non hanno dubbi: il processo di maggiore autonomia dei territori è positivo perché consente di aumentare la responsabilità dei territori nella gestione della cosa pubblica. La facoltà di chiedere maggiore autonomia su specifiche materie dovrebbe realizzarsi, però, in modo equilibrato, attuando tutte le parti previste della legge sul federalismo fiscale, in particolare con la definizione dei fabbisogni standard nazionali, l’attivazione del Fondo di perequazione e garantendo i livelli essenziali delle prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Un federalismo, insomma, equilibrato e solidale nel rispetto dei principi costituzionali: l’Italia si salva solo se riesce a darsi un orizzonte in cui le regioni più forti non abbandonano le più deboli, e le più deboli non si arrendono alla deriva assistenzialista. Sarà, insomma, un esame di maturità per tutti.

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