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Il cammino di Meloni: è ora per la destra di sdoganare sé stessa

Domenico Giordano
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Nei settantasei anni di vita repubblicana, la destra italiana è passata due volte attraverso la cruna dell'ago: la prima, il 23 novembre del 1993, quando Silvio Berlusconi, all'epoca presidente Fininvest, si disse pronto a votare senza esitazioni Gianfranco Fini, a sindaco di Roma. La seconda, ben più recente datata 22 ottobre 2022, coincide con il giuramento costituzionale di Giorgia Meloni, primo leader della destra conservatrice, a diventare Presidente del Consiglio dei Ministri. Tant'è ha ragione Berlusconi nel rivendicare, come ha fatto l'altro giorno prendendo la parola in Senato, che se non ci fosse stato quel suo primo sdoganamento politico e culturale nei confronti del giovane segretario del Movimento Sociale, oggi probabilmente Giorgia Meloni non sarebbe alla guida del Paese. Solo che a differenza del primo che aveva una valenza assai diversa, è proprio questo secondo sdoganamento a gravare per lo più sulle spalle di Giorgia Meloni, che può condurre la destra italiana a fare un salto che, almeno fino a oggi, non è mai stato compiuto completamente.

 

 

E non parlo dei tristi e triti giurin giurello per rinnegare gli ideali fascisti o peggio per rassicurare le diverse cassandre solerti nel denunciare la catastrofe dei diritti civili, il rischio imminente di una talebanizzazione de' noantri che punta a silenziare le minoranze, a cancellare il dettato costituzionale, a confinare i trans e gli omosessuali e a rendersi responsabile di una virata autoritaria in stile orbaniano. Al contrario, il rischio maggiore che corre la destra italiana è un altro, rimanere chiusa nel fortino culturale dove è stata spinta negli anni da una certa sinistra, quella che si reputa moralmente superiore a prescindere. La sola legittimata dallo spirito santo dei padri costituenti a governare l'Italia, una sinistra abilitata al rilascio delle patenti di santità democratica e degli attestati di affidabilità istituzionale e internazionale. Ecco perché l'attuale classe dirigente della destra è chiamata soggettivizzare in fretta la dimensione della responsabilità di governo, con tutto il suo portato di conseguenze. Se per la Meloni sarà più semplice proprio per il ruolo che riveste lasciare a casa l'elmetto, per gli altri sarà facile perdersi nell'inutile conflitto con i progressisti della Ztl e alla lunga il pericolo è fare la fine dei soldati giapponesi ai quali nessuno comunicò la fine delle ostilità belliche.

 

 

La destra italiana ha davanti a sé la prova più difficile, quella più insidiosa perché falsata dall'entusiasmo di una vittoria elettorale storica, che porta però dentro di sé la cattiva verità di aver sanato di colpo ogni immaturità. È arrivato il momento di sdoganarsi da sé stessa, da quella confortevole convinzione adolescenziale di essere e sentirsi inadeguata, appestata fuori dalla propria nicchia, di parlare unicamente alla propria comunità militante. Adesso c'è da rappresentare una comunità conciliante, molto più ampia ed eterogenea. Per fare questo, è giunto il momento per la destra italiana di lasciarsi alle spalle tutto l'armamentario lessicale che è stato generosamente utilizzato in questi anni, perché si cresce per davvero solo quando si diventa orfani di qualcuno o di qualcosa. Ciò non significa affatto tradire, idee e principi e storie, perché questa del tradimento è categoria valoriale che in politica trova spesso un'applicazione strumentale e che per la destra assume un significato ecumenico, ma uscire dall'alibi del figlio incompreso, affrancarsi dalla visione minoritaria del mondo. In poche parole, è arrivato per la destra italiana il tempo di imparare a essere orfana delle sue debolezze.

 

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