IL COMMENTO

Camere, La Russa e Fontana divisivi? I Dem dimenticano tanti predecessori

Riccardo Mazzoni

La sinistra non cambia mai verso: resta abbarbicata ai suoi pregiudizi ideologici che la portano a rifiutare sia la realtà delle sconfitte che le lezioni della storia. Il centrodestra ha stravinto le elezioni e ha eletto alla presidenza delle Camere due personaggi identitari dei due partiti della coalizione che hanno ottenuto più seggi.

La Russa è orgogliosamente un politico di destra proveniente dalle file missine, ma ha già rivestito ruoli istituzionali importanti, e il suo discorso d'investitura è stato un impeccabile manifesto di equilibrio e di sobrietà; Fontana è sicuramente un integralista cattolico ostile al mondo Lgbt e con un passato filoputinista, dal quale ha però da tempo preso le distanze. Comunque la si pensi, si tratta di due scelte su cui è ovviamente lecito dissentire, ma pienamente legittime, ed è quindi imperdonabile che un ex premier come Enrico Letta abbia scelto un palcoscenico internazionale per denunciare la «logica incendiaria» che avrebbe portato alla loro elezione, perché attaccare in modo così virulento le istituzioni significa fare un danno all'Italia, come ha prontamente rimarcato Giorgia Meloni.

Ma se La Russa e Fontana sono considerati due personaggi «divisivi» e quindi inadatti a ricoprire le più alte cariche dello Stato - come se la sinistra avesse il diritto esclusivo di distribuire patenti di agibilità democratica - allora viene spontaneo ricordare un precedente speculare e molto più sgrammaticato proprio dal punto di vista politico-istituzionale: le elezioni del 2013 - a differenza delle ultime - si erano concluse con un sostanziale pareggio (la leggendaria «non vittoria»), ma il Pd non esitò ugualmente ad eleggere Laura Boldrini alla presidenza della Camera e l'ex magistrato Pietro Grasso al Senato con una mossa del cavallo che avrebbe dovuto aprire la strada a un governo del cambiamento con Bersani premier e l'appoggio del MoVimento.

Fu un autentico azzardo, fallito poi fragorosamente nel famoso confronto in streaming con la delegazione grillina che segnò l'umiliazione del leader piddino e la sostanziale fine della sua segreteria. Mentre l'unica soluzione realistica, a cui stava lavorando Napolitano, era un governo di larghe intese, il Pd mise quindi due dita negli occhi del centrodestra imponendo alla guida delle Camere una pasionaria della sinistra radicale e un alfiere del giustizialismo giacobino, che sarebbe risultato determinante, operando una forzatura regolamentare, nel determinare la cacciata di Berlusconi dal Senato.

Non a caso, il Pd, prima del voto sulle presidenze, aveva consultato solo i grillini e i montiani, ma non il leader della coalizione arrivata seconda e che rappresentava, esattamente come il centrosinistra, un terzo degli italiani. Una palese scorrettezza che fece maturare un accordo surrettizio grazie al quale anche i tre presidenti delle bicamerali furono eletti tagliando fuori il centrodestra: all'antimafia, ad esempio, doveva andare un galantuomo come Donato Bruno - non certo un personaggio divisivo - e invece fu eletta Rosy Bindi, che divisiva lo era eccome, con i voti di Scelta Civica e dei Cinque Stelle.

Questa è da sempre la realtà: piuttosto che aprire a un governo col centrodestra, Bersani bloccò il Paese per due mesi nel tentativo di convincere Grillo a un accordo allora impossibile, e mise in campo per Camera e Senato due figure che tutto dimostrarono durante il loro mandato meno che l'imparzialità, almeno di facciata, dovuta per chi occupa quegli alti ruoli. Grasso si dimise addirittura dal Pd, in aperto dissenso con la linea di Renzi, conservando però gelosamente la carica istituzionale, e la Boldrini, icona della sinistra dura e pura, lo raggiunse nella ridotta di Leu cavalcando l'immigrazione incontrollata, il terzomondismo ed ergendosi a paladina delle donne e dei diritti umani. La sua presidenza fu peraltro oggetto di ripetute critiche da parte delle opposizioni: Grillo la definì «lady Ghigliottina», oltre che «inadeguata, impropria, miracolata», mentre per Salvini "una gestione del genere non si vede nemmeno in Corea del Nord".

Non furono forse quelle del Pd due scelte "incendiarie", per dirla con le parole dello smemorato Letta, che di quella stagione politica fu uno dei principali protagonisti? Il centrodestra le subì, restando però responsabilmente aperto al confronto per non affossare la legislatura. Ma il Pd non lo farà, prigioniero dell'atavico complesso di superiorità a dispetto delle sconfitte ed evidentemente immemore che gettare discredito contro gli avversari alimenta un pericoloso clima di odio politico.