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Il silenzio elettorale non ha più senso nell'epoca dei social network

Domenico Giordano
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Come si può violare qualcosa che di fatto non è disciplinato dalla legge? La risposta è semplice: non si può, punto. Tanto che diventa una ridicola forzatura anche denunciarne la presunta violazione, cosa che è stata fatta anche ieri a proposito del silenzio elettorale, al quale sarebbero obbligati i candidati, le liste, i partiti, i militanti e, non di meno, gli operatori dell’informazione.

La legge che disciplina il bavaglio alla propaganda elettorale è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale l’11 aprile del 1956, aggiornata poi con una serie di interventi nel 1975, nel 1985 e nel 1997. Una norma, oggi chiaramente anacronistica o se vogliamo di stampo feudale, priva di una concreta e reale applicazione in un mondo dove la dimensione digitale degli individui, come singoli e parimenti come comunità, è così pervasiva e dominante che i sociologi van Dijck, Poell e de Waal hanno teorizzato l’avvento della platform society, ovvero di una società che è plasmata dall’utilizzo delle piattaforme digitali.

Nel 1956 e nei quattro decenni successivi l’ecosistema dell’informazione e il sistema mediale ha agevolato senza particolari affanni l’applicazione rigorosa della norma: i giornali, le radio e le televisioni silenziavano in modo puntuale il dibattito elettorale. I manifesti venivano prontamente rimossi e la clandestinità della propaganda era affidata a qualche fac-simile da scambiare furtivamente la domenica all’uscita dalla messa mattutina.

Con l’avvento del web 2.0, dei social network e di società iperconnesse, il silenzio elettorale così come previsto dalla legge del ’56 è di colpo diventato un muro fragilissimo, trasparente, una foglia di fico. La norma, diciamolo senza strapparci le vesti, ha perso quasi del tutto la sua efficacia dal momento che la fetta maggiore e più pervasiva della comunicazione odierna passa dalla Rete, ambiente fino a oggi non normato e che, anche questo va detto chiaramente, andrebbe disciplinato con un approccio differente e non certo con una visione punitiva.

 

 

 

Diversamente, se pensiamo che la legge possa essere applicata per similitudine, perché qualche anno fa la Cassazione ha sentenziato che non bisogna fare propaganda in luogo pubblico e i social sono un luogo pubblico, allora cadiamo ancora una volta nell’imbuto dell’ingenuità. Se così fosse, ad esempio, i candidati dovrebbero dalla mezzanotte del venerdì antecedente il voto della domenica, chiudere i loro canali social. Ma poi va rammentato a scanso di equivoci che noi tutti siamo degli ospiti a pagamento delle piattaforme e non viceversa, quindi al più la cancellazione di un account è una decisione che spetta unicamente alle big Five dell’info-sfera digitale. Altresì, i partiti e i leader dovrebbero chiedere ai provider di sospendere per 48 ore i domini dei siti web o, ancora, se pensiamo alle applicazioni di messaggistica, di disattivare gli account di Telegram, Viber, Signal, WeChat, WhatsApp. Insomma, siamo di fronte a una serie di operazioni che per interessi diffusi e per complessità diventa, oltretutto solo per poche ore, del tutto improponibile. Mentre, passata anche questa tornata elettorale, resta sul tavolo aperta una discussione sui possibili modelli di una regolamentazione della comunicazione politica ed elettorale sulle piattaforme social e in rete che prima o poi dovrà essere affrontata.
 

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