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La sinistra calpesta le regole della democrazia

Riccardo Mazzoni
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In una democrazia liberale spetta al governo garantire alle opposizioni il diritto di manifestare e di poter svolgere regolarmente i suoi comizi: è un esercizio di libertà che vale sempre, e che trova la sua più alta espressione nelle campagne elettorali, quando cioè si determina in modo definitivo il consenso dei cittadini. Ebbene, è un fatto che in questa legislatura i Fratelli d’Italia siano rimasti sempre all’opposizione - non è una nota di merito ma una constatazione – e quindi dovrebbe risultare del tutto naturale la richiesta della sua leader di una maggior tutela per arginare le contestazioni divenute sempre più frequenti con l’approssimarsi del 25 settembre.

Invece no: la sinistra e i suoi giornali sono subito insorti affermando che impedire ai contestatori di contestare è la postura di chi si appresta, una volta vinte le elezioni, a instaurare in Italia una democrazia illiberale, perché la piazza è per natura il luogo del dissenso pubblico, e senza dissenso non c’è democrazia. Un ragionamento specioso, perché finge di ignorare che in democrazia la libertà di pensiero è un valore costituzionale, che impedirla con qualsiasi mezzo è una prevaricazione, e che il dissenso è prima di tutto una prerogativa dell’opposizione: quella ora rappresentata, appunto, dal partito della Meloni.

Chi ha vissuto gli anni turbolenti, e purtroppo anche tragici, della Prima Repubblica ricorda il clima d’assedio in cui si svolgevano i comizi del Movimento Sociale, con le piazze blindate e le forze dell’ordine schierate per consentire agli oratori di parlare: allora il Msi era tenuto rigorosamente fuori dall’arco costituzionale perché considerato l’erede del fascismo, ma lo Stato democratico ne proteggeva il diritto di esistere e di manifestare. Erano tempi di contrapposizioni feroci che si sperava fossero definitivamente archiviati con la svolta di Fiuggi e la condanna del fascismo come male assoluto, ribadito senza ombre ieri dalla Meloni.

Invece la sinistra italiana non ha mai deposto le sue armi ideologiche, e quando sente odor di sconfitta le risfodera non esitando neppure a schierarsi dalla parte dei violenti. È successo sistematicamente con Berlusconi a Palazzo Chigi, quando le piazze servivano da detonatori della rabbia politica incubata nel rifiuto di riconoscere legittimità alle maggioranze di centrodestra uscite dalle urne. E se c’è da abbattere un tiranno, tutti i mezzi diventano leciti, per cui all’inizio del 2011, dopo che il governo era sfuggito per un solo voto all’imboscata parlamentare dei finiani, un gruppo di esagitati, sospinto dagli intellettuali della sinistra al caviale, tentò di assaltare la residenza del premier autoconferendosi il mandato di abbatterlo per il bene del Paese, con il solito pretesto dell'emergenza democratica. Di Pietro disse che Arcore era la nuova Bastiglia, e qualcuno invocò addirittura per l'Italia la rivoluzione egiziana, un’orgia di contropotere in cui l'opposizione smarrì definitivamente il senso della democrazia, col Pd che fece ancora una volta da sponda alla contestazione violenta. E quando i black-bloc tentarono di forzare gli ingressi di Palazzo Madama, la Repubblica titolò « ragazzi entrano al Senato».

Un armamentario che oggi, dopo un decennio al governo senza mai vincere le elezioni, il Pd sta riproponendo in funzione preventiva, con il blitz di Letta a Berlino per sollecitare il pronunciamento di Scholz contro il pericolo postfascista e gli allarmi apocalittici delle testate amiche sullo spread alle stelle se vincerà la destra. Un film già visto, girato dagli stessi registi politici che per difendere la democrazia finiscono per calpestarne le regole, secondo la radicata convinzione che senza la sinistra al governo non c’è più autentica democrazia, ma solo una deriva illiberale. Per cui si mischiano le carte, e se la leader dell’opposizione chiede tutela al governo si confonde artatamente la causa con l’effetto, e l’antidemocratica è lei, non i bravi ragazzi che le impediscono di parlare.

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