commento
La riforma della giustizia proposta dal centrodestra non è antidemocratica
Ci sono già tutti gli indizi perché il fattore Orban venga usato come arma politica contro la riforma della giustizia prevista nel programma elettorale del centrodestra. Un’autorevole avvisaglia c’è già stata con l’intervista del vicepresidente del Csm Ermini a La Stampa, in cui si esprime il timore che la nuova maggioranza, grazie a questa legge elettorale, possa avere i numeri da sola per «indicare per intero la composizione degli organi di garanzia» come il Csm e la Consulta.
Una scelta che traviserebbe lo spirito dei Costituenti, i quali previdero maggioranze qualificate allo scopo di garantire il pluralismo di questi organi, «che non devono essere subordinati alla politica». Un monito che in tutta evidenza non tiene conto della realtà, visto che proprio l’estrema politicizzazione del Csm è stata alla base degli scandali che hanno investito la magistratura facendone precipitare la credibilità. Ma non è questo il punto: Ermini infatti si è premurato di ricordare la deriva illiberale di una maggioranza che, sia pure legittimamente eletta, sovrasta e ingabbia i poteri autonomi e gli organi di garanzia, facendo esplicito riferimento al contenzioso in atto tra Unione Europea, Ungheria e Polonia. Non può sfuggire il malizioso tentativo di porre la prossima Italia guidata dal centrodestra sullo stesso piano dei due Paesi sovranisti da tempo nel mirino delle istituzioni comunitarie per le violazioni allo Stato di diritto. Un vero e proprio processo alle intenzioni, insomma, anche se Ermini si dice certo che questo non succederà: intanto però ha gettato nello stagno non un sassolino, ma un macigno politico, aggiungendo che «anche la rete europea dei Csm se ne è occupata, denunciando i rischi di una concezione della vittoria elettorale come mandato totalizzante in contrasto con la nostra ispirazione costituzionale».
Poi la bordata finale: il rischio di «una resa dei conti per ridimensionare l’ordine giudiziario». Argomento non nuovo, perché è il leit-motiv che ha accompagnato tutti i precedenti (e inutili) tentativi di riformare la giustizia da parte dei governi Berlusconi. Vale allora la pena mettere qualche puntino sulle «i»: era forse ispirata ai nostri principi costituzionali la politica giudiziaria dei governi Conte, che mise in serio pericolo la libertà e i diritti degli italiani intervenendo sulla prescrizione, un istituto previsto a tutela dei cittadini per garantire la ragionevole durata del processo e allungando così i tempi già apocalittici della giustizia? E non è forse vero che l’Europa negli ultimi trent’anni ha più volte bacchettato l’Italia per le inadempienze del suo sistema giudiziario? Basti pensare alla piaga dei detenuti in attesa di giudizio, di cui deteniamo un triste primato, e al numero abnorme degli arresti di persone poi giudicate innocenti.
Nella riforma proposta dal centrodestra non c’è alcun attentato all’indipendenza della magistratura: la separazione delle carriere rappresenta infatti solo lo strumento principe per assicurare l'effettiva parità processuale tra accusa e difesa, i cui diritti sono stati spesso compromessi da un esercizio anomalo del potere accusatorio. A questo proposito, non va dimenticato che la separazione delle funzioni tra pm e giudici, due sezioni diverse del Csm e le scelte di politica criminale fissate ogni anno dal Parlamento per evitare la discrezionalità delle singole Procure erano i punti essenziali della riforma della giustizia nel documento messo a punto dalla Bicamerale D'Alema nel 1997. Un testo che puntava anche a spezzare i condizionamenti corporativi che assicurano la totale impunità ai magistrati che sbagliano. Era anche quella una deriva orbaniana? No, solo il tentativo di intervenire sui nodi strutturali della giustizia per metterla in sincrono col sistema accusatorio adottato ormai un quarto di secolo fa con la riforma Vassalli. Un passo che il Parlamento non ha mai avuto il coraggio di fare, ma che ora è un preciso dovere del centrodestra se vincerà le elezioni.