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Conte preferisce la propaganda alla coerenza

Riccardo Mazzoni
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Conte ha scelto tre target precisi per il recupero di una parte dei consensi grillini sperperati nel giro di una legislatura: la difesa a oltranza del reddito di cittadinanza, fino a minacciare la guerra civile se il nuovo governo oserà anche solo toccarlo, i bonus a pioggia accompagnati dalla parola magica «gratuitamente» e il pacifismo senza see senza ma, anche se su quest'ultimo fronte sta incontrando a sinistra competitori più credibili di lui. Come dimostra, ad esempio, la sua recente comparsata a Coltano, in provincia di Pisa, dove era in corso la mobilitazione pacifista contro la costruzione di una mega base militare: un festival arcobaleno che gli ha però preferito De Magistris e Potere al Popolo, tanto che l'ex avvocato dello stesso popolo ha dovuto stare ai margini della manifestazione per evitare sgradevoli contestazioni.

I «no war» non gli hanno evidentemente perdonato le palesi contraddizioni fra la sua attuale postura di inflessibile oppositore della guerra e il sì del suo Movimento al decreto che a marzo autorizzò l'invio di armi all'Ucraina, con l'annesso ordine del giorno che impegnava il governo ad aumentare le spese militari fino al 2% del Pil.

Conte può legittimamente rimarcare il clima in cui maturò quel voto, poche settimane dopo l'invasione russa, con l'allora compagno di partito Di Maio ministro degli Esteri di un esecutivo di unità nazionale. Oltre che rivendicare di essere poi stato una costante spina nel fianco di Draghi con la scusa che l'aumento delle spese militari non faceva parte del patto fondativo del governo. Ma proprio qui casca l'asino del Conte pacifista, perché i suoi precedenti di governo non depongono in questo senso a suo favore: nel 2019 infatti, in occasione del settantesimo anniversario di fondazione della Nato, sottoscrisse senza batter ciglio la richiesta di Trump agli alleati di aumentare gli investimenti per la Difesa e l'anno successivo, quando era a capo del governo col Pd, nonostante i maxi scostamenti di bilancio per fronteggiare gli effetti della pandemia, la spesa militare italiana aumentò di quasi un miliardo e mezzo (da 21,5 miliardi a 23,1).

Ma non basta: fu infatti il secondo governo Conte a porre le basi per affiancare al bilancio ordinario un fondo di investimenti pluriennale in cui far confluire le risorse sparpagliate tra diversi ministeri, misura poi confluita nella legge di bilancio 2021 che i Cinque Stelle votarono senza fare obiezioni. Le giravolte grilline sono state la cifra portante della legislatura appena conclusa, e il premier trasformista ne è stato fino all'ultimo il perfetto protagonista, passando disinvoltamente dall'indossare l'elmetto per compiacere Trump al diktat pacifista per pretendere da Draghi più gradualità nel rispetto degli impegni Nato dopo averli lui per primo sottoscritti. Ma prima la sete di rivalsa contro l'usurpatore Draghi, e ora la full immersion elettorale lo hanno convinto che la propaganda è una merce che rende molto più della coerenza. Per cui non sorprende che nell'ultima seduta della commissione Difesa alla Camera abbia consigliato ai suoi di insorgere contro il parere favorevole dato da tutti gli altri gruppi a sedici programmi d'arma, per una spesa totale di quasi 12 miliardi. «Un evidente favore a qualche lobby delle armi» - hanno scritto i commissari grillini in una nota ricolma di indignazione - senza però specificare a quali interessi e a quali lobbies rispondevano loro quando votavano come soldatini gli aumenti delle spese militari decisi da Conte, surreale interprete di questa guerra e pace in salsa grillina.

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