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Enrico Letta è un ex riformista, ora va solo a sinistra. La metamorfosi è completa

Riccardo Mazzoni
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Il blairismo? Un relitto ideologico da consegnare alla storia. Il jobs act? Un feticcio renziano da rottamare. La svolta gauchista di Letta non poteva essere più esplicita e netta, richiamandosi alla riforma del lavoro spagnola dettata da Podemos, per la quale i contratti di lavoro devono essere tutti stipulati a tempo indeterminato, anche se nelle pieghe della legge si scopre che si può comunque apporre una data di fine rapporto per «circostanze della produzione» o addirittura per «la sostituzione di un lavoratore». Ma questi sono dettagli: l'importante per il segretario del Pd è sottoscrivere ogni manifesto massimalista che gli consenta di recuperare spazio e consensi a sinistra, con l'obiettivo di arginare la concorrenza di Conte, non più considerato il punto di riferimento fortissimo dei progressisti, ma che grazie all'investitura ricevuta dal Pd ormai si muove con disinvoltura come un leader della sinistra radicale.

 

 

Dopo la rottura con Renzi e Calenda, Letta sta quindi abbandonando ad uno ad uno i rari baluardi della politica riformista: non a caso i primi a esultare sono stati gli ex scissionisti di Leu e la pasionaria emiliana Schlein, che parla di una nuova agenda sociale più vicina evidentemente al decreto dignità che al jobs act. Che, peraltro, da rivoluzione epocale del mercato del lavoro si trasformò in una piccola riforma a causa delle resistenze della minoranza del Pd: non ci fu infatti nessun superamento dell'articolo 18, finendo per creare nuove rigidità in entrata e in uscita, soprattutto per effetto del diverso regime tra vecchi e nuovi assunti. Ma soprattutto rimase la stessa logica anti-imprenditoriale della sinistra, irrigidendo ulteriormente, peraltro, la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, e le politiche attive diventarono una sperimentazione basata sul sorteggio. La creazione del lavoro stabile attraverso gli incentivi alla decontribuzione, infine, si rivelò una chimera appena questi diminuirono. Il jobs act insomma fu una riforma a metà, nulla a che vedere con quella approvata dal secondo governo Berlusconi, che mise in atto la dottrina di Marco Biagi, grazie alla quale il mercato del lavoro italiano registrò una dinamica di crescita ininterrotta nei primi otto anni del Duemila.

 

 

La grande intuizione del giuslavorista ucciso dalle Br fu quella di garantire un sostanziale equilibrio tra una maggiore flessibilità di ogni singolo rapporto di lavoro e la maggiore protezione della persona nel mercato del lavoro: via l'articolo 18, meno leggi e più contratti, più flessibilità nelle forme contrattuali in linea con i cambiamenti della produzione, un robusto apprendistato per entrare subito nel mercato del lavoro, competizione facile ed aperta tra centri per l'impiego e agenzie private. Fu il tentativo di uscire dagli steccati ideologici, quelli a cui il Pd di Letta si sta invece di nuovo aggrappando per chiudere definitivamente una contraddittoria stagione riformista.

 

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