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L'allarme democrazia agita la sinistra. Ma nasconde solo una politica illiberale del Pd

Riccardo Mazzoni
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Per sostenere il suo ex pupillo Enrico Letta in questa campagna elettorale tutta in salita, Romano Prodi ha pensato bene di aprire una riflessione «sul modello di Stato che vorremmo», rilanciando il consueto allarme della sinistra sulla democrazia in pericolo ogni volta che il centrodestra parte favorito. Nulla di nuovo, dunque, anche se questa volta l'ex premier ha voluto aggiungere un ragionamento più approfondito, paventando il rischio che «se il centrodestra dovesse raggiungere i suoi obiettivi, questo porterebbe a una democrazia meno liberale». Il che, detto dal leader che ha incarnato più di ogni altro la declinazione politica del cattocomunismo, fa francamente sorridere. Il prodismo, ossia il patto di potere che ha legato in modo inscindibile ex comunisti ed ex democristiani di sinistra per la reciproca sopravvivenza politica, ha infatti inflitto all'Italia due stagioni di burrascosa e pessima governabilità scegliendosi sempre come alleati i partiti più illiberali, da Rifondazione comunista a Di Pietro, e il Pd, di cui il Professore è stato presidente del comitato fondatore, ha proseguito sulla stessa linea inseguendo, da Bersani a Zingaretti, il populismo grillino. Tranne il breve interregno di Renzi nessuno dei segretari ha mai avuto il coraggio dire che Di Pietro e Grillo, con la loro concezione autoritaria e intollerante della convivenza civile, erano e sono semplicemente avversari incompatibili con un partito riformista. Il problema è che il Pd ha fallito la missione storica che si era dato - quella di emancipare la sinistra dai suoi vecchi vizi - continuando invece a coltivare il germe illiberale in cui è stata cresciuta la sua base.

 

 

La stessa vocazione maggioritaria che doveva costituirne il tratto identitario è rimasta solo un'enunciazione di principio naufragata nella riproposizione successiva o del Grande Ulivo o del campo largo, una sorta di indistinto contenitore progressista lontanissimo dal riformismo, e a maggior ragione dagli esperimenti lib-lab. Era la geometria politica immaginata alle origini da Prodi, che poi dovette però rassegnarsi a dare pari dignità a Bertinotti, a tutta l'area massimalista e alle sue derivazioni giacobine. Per questo è paradossale che da quel pulpito vengano impartite lezioni di «democrazia liberale». Anche le famose lenzuolate di Bersani, sbandierate come liberalizzazioni, furono soltanto una cosmesi rossa che produsse nuove anomalie e nuovi disequilibri: partendo dal giusto presupposto di far uscire l'Italia dai vecchi corporativismi che distorcevano il mercato e la concorrenza, infatti, il governo Prodi finì per punire le categorie meno protette per favorire la grande distribuzione, di cui le Cooperative rosse erano la parte più rilevante, abilitata a vendere di tutto, anche la benzina, continuando peraltro a godere di anacronistici privilegi fiscali.

 

 

Ed è difficile trovare, anche cercandole col lanternino, tracce di democrazia liberale nelle politiche sulla giustizia dei governi di sinistra: l'ultimo, quello rossogiallo, ha rappresentato infatti il trionfo del populismo giudiziario, con lo stravolgimento del sistema costituzionale di garanzie e basato sul principio della presunzione d'innocenza. Con l'abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio e il via libera indiscriminato all'utilizzo dei trojan nelle intercettazioni si realizzò il sogno dei peggiori giacobini: la nascita della democrazia giudiziaria fondata sul processo senza fine. L'opposto della democrazia liberale, di cui il garantismo è un ineliminabile baluardo. Ma la sinistra è da sempre maestra nel manipolare la storia, e nel capovolgere la realtà.

 

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