commento

Il coraggio di Carlo Nordio sulla questione dell'immunità parlamentare

Riccardo Mazzoni

La sinistra parla di ossessione giudiziaria, ma il centrodestra fa bene a mettere le mani avanti sulle possibili incursioni del partito dei pm nella campagna elettorale: le cronache degli ultimi trent’anni, infatti, ci ricordano che la giustizia a orologeria è stata la regola e non l’eccezione, e che è giusto tenere alta la guardia. Del resto, non è stato forse Palamara, a lungo deus ex machina delle vicende togate, a dire che «una Procura organizzata, ammanicata con le testate giuste e con i servizi segreti, ha più potere del Parlamento, del premier e dell’intero governo?».

E non fu Violante, ex responsabile per le riforme del Pd, a sostenere che «i pubblici ministeri sono in grado di incidere sul consenso, ossia sul fondamento della legittimazione del politico», per cui il loro è diventato un potere politico a tutti gli effetti? In una democrazia liberale, un governo eletto democraticamente dal voto popolare non può essere dimissionato dai magistrati, mentre in Italia ogni esecutivo di qualsiasi tendenza politica viene lasciato indifeso di fronte a una giustizia altamente politicizzata: in nessun’altra democrazia occidentale i magistrati sono così potenti come da noi.

E viene dall’insegnamento del liberalismo anche l’idea che rifiuta la figura del giudice legislatore o del giudice amministratore, il quale - forte della toga - si fa carico di applicare la sua personale giustizia. Il processo deve restare il luogo dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, non divenire un palcoscenico attraverso cui lo Stato regola i conflitti sociali, governa i flussi di consenso o veicola disegni di moralizzazione pubblica. Per cui, dopo la lunga stagione giustizialista, l’utilità di ripristinare l’immunità parlamentare come la disegnarono i costituenti con l’articolo 68 non è solo un raffinato esercizio di politologia, ma un argomento da affrontare con le riforme della prossima legislatura.

Il sasso nello stagno lo ha coraggiosamente gettato l’ex giudice Nordio, ora candidato di Fratelli d’Italia, invitando «tutti i partiti» a riappropriarsi del ruolo primario che deriva alla politica dalla legittimazione popolare, altrimenti la nostra è destinata a rimanere «una sorta di democrazia dimezzata». L’immunità parlamentare, dunque, non è un privilegio di casta, ma una garanzia dalle interferenze improprie della magistratura, ed è un principio che fu condiviso da Togliatti, De Gasperi, Nenni e Calamandrei. La sua abolizione ha placato solo in parte la fame della bestia populista, che - mai sazia - ha preteso anche il taglio dei parlamentari, con una classe politica imbelle che invece di difendere le proprie prerogative ha sempre alzato bandiera bianca.

In questo clima, la supplenza della magistratura è diventata realtà, e un esponente delle toghe rosse è arrivato perfino a sostenere che si può «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza», un pronunciamento da far venire i brividi. Questo per dire che Nordio ha pienamente ragione, e che la sua proposta non è tesa a difendere la casta, ma la democrazia.