Il centrodestra trova l'intesa con una schiarita necessaria. A sinistra piangono
Il vertice del centrodestra a Montecitorio dovrebbe aver finalmente chiuso una lunga e travagliata stagione di dissidi, incomprensioni e personalismi che in questa legislatura hanno visto giocare a Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia parti diverse in commedia, una deriva culminata in rovesci storici come il disastro del Quirinale e la inopinata sconfitta di Verona. Nel frattempo i rapporti di forza nella coalizione si sono ribaltati con un consistente travaso di consensi dalla Lega a Fratelli d'Italia, ma grazie al principio dei vasi comunicanti questo flusso di voti non ha mai compromesso la prevalenza della coalizione sul centrosinistra. Questa inossidabile fedeltà dell'elettorato a dispetto di tutto è una costante che va considerata come una sorta di miracolo della pazienza di cui però non sarebbe lecito approfittare ulteriormente, perché il tempo è scaduto: nelle emergenze ognuno ha fatto legittimamente le sue scelte, ma l'escalation di accuse reciproche è troppo spesso sconfinata in una mancanza di rispetto anche e soprattutto per gli elettori. Dopo la caduta di Draghi, riannodare il filo del dialogo era quindi un imperativo categorico per tutti in vista di un voto anticipato che può costituire un'occasione storica per restituire all'Italia dopo undici anni un governo espressione della volontà popolare e non frutto delle alchimie di Palazzo.
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Meloni, Salvini e Berlusconi non si riunivano insieme dal vertice di Arcore del 17 maggio, che - per dirla con un eufemismo - non andò benissimo, accentuando anzi le distanze tra il cosiddetto centrodestra di governo e Fratelli d'Italia dopo l'ennesima frattura consumata sulla rielezione di Mattarella. Ma ora sembra che col vertice di ieri sera tatticismi e recriminazioni siano stati messi in archivio, con la consapevolezza che la partita sembra in discesa ma non è ancora vinta, nonostante i sondaggi favorevoli e il campo aperto di Letta ancora pieno di steccati e macerie politiche da rimuovere. La schiarita era necessaria e opportuna, per superare quella che a tutti gli effetti era stata una falsa partenza: le schermaglie e gli ultimatum sul nodo del premier avevano infatti diffuso l'immagine di una coabitazione forzata, e non di un'alleanza fondata su programmi e valori comuni, che invece in larga parte ci sono, anche se restano zone d'ombra sulla politica estera che sarebbe interesse comune spazzare via, nella consapevolezza che un governo fuori, o ai margini, del perimetro obbligato Nato-Europa metterebbe a rischio l'interesse nazionale. La regola storica del «chi ha più voti si prende palazzo Chigi» era difficilmente contestabile, e su questo punto è comprensibile che Fdi abbia preteso chiarezza, ma farne una questione pregiudiziale è stato un errore, perché la legge elettorale non lo richiede ed è meglio che ogni partito corra puntando sul suo leader per massimizzare la propria identità in campagna elettorale.
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Quindi, fatta salva la questione di principio, la strategia secondo cui ogni partito della coalizione corre con il proprio simbolo e con il proprio capo politico è stata decisamente la più saggia. Anche perché la vera posta in gioco in questo momento è il risiko dei collegi, il cui esito - oltre ai consensi nel proporzionale determinerà i reali rapporti di forza all'interno della coalizione: oltre al criterio di spartizione - con la scelta tra algoritmo Calderoli, voto ponderato o il 50 per cento preteso da Fdi - conterà molto l'individuazione dei collegi davvero sicuri, e qui saranno decisivi gli epigoni di Cencelli, strateghi divenuti merce rara, che avranno di fronte una complicazione di non poco conto, dovuta al taglio dei parlamentari e al rapporto fortemente alterato tra eletti e ampiezza dei territori. Il «clima sereno» con cui il vertice si è concluso non deve ingannare: sui collegi lo scontro sarà all'arma bianca fino all'ultimo, e più cruento di sempre perché ci sono 345 posti in meno. Ma la coesione politica pare ritrovata, ed è un buon segnale. A sinistra, su questo, devono ancora trovare la quadra: c'è sempre chi sta peggio.
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