M5s, tutti i paradossi della rottura grillina e la loro inaffidabilità sulla politica estera
L’epilogo dello psicodramma grillino è difficile da raccontare nella sua contorta semplicità, laddove la faccia palese della medaglia sta nell’acerrimo dualismo Conte-Di Maio con sullo sfondo la questione esiziale del terzo mandato, mentre l’altra riguarda la collocazione atlantista del Movimento, su cui si è verificato un cortocircuito logico degno di una commedia dell’assurdo. In sintesi: i Cinque Stelle sono riusciti nel capolavoro di scindersi dopo aver votato lo stesso documento di politica estera ma aver messo alla porta il proprio ministro per aver accusato il suo capo di disallineamento dalla Nato sull’invio di armi all’Ucraina. Un girigogolo da far girare la testa. Ma più che un’accusa, era una constatazione, e a quel punto Conte ha preferito capitolare sulla risoluzione del Senato per dimostrare che il suo rivale diceva il falso, anche se era tutto vero. Infatti, dopo la scissione il Movimento è diventato una sorta di bad company della maggioranza più vicina a di Di Battista che a Draghi. Resta da vedere se allo statista di Volturara Appula basterà aver sostituito la pochette con la bandana per restare al timone della nave pirata.
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Resta il paradosso che l’ultimo atto della diaspora grillina si sia consumato sulla surreale e ingannevole disputa a chi è più filo-atlantico. Perché i documenti politici e gli atti parlamentari del Movimento raccontano tutt’altra storia. Nel programma di governo presentato nel 2018, ad esempio, si riteneva indispensabile «una riflessione sull’attuale ruolo della Nato e sugli effetti che l’appartenenza italiana alla Nato produce in termini di limitazione della sovranità territoriale», definendo l’Alleanza Atlantica un modello ormai superato. Ma due anni prima, alla vigilia di un cruciale vertice europeo, i Cinque Stelle presentarono a Camera e Senato una risoluzione ancora più tranchant, che diceva di «considerare esaurite le motivazioni dell’adesione italiana alla Nato». Una deriva antioccidentale molto radicata nel Movimento nonostante l’indiscusso filoatlantismo di Gianroberto Casaleggio.
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La politica estera è da sempre il termometro della salute di un governo, non solo per i suoi riflessi contingenti sugli equilibri politici interni, ma soprattutto perché da essa dipende la credibilità internazionale dell’intero Paese, e quando sono arrivate al governo le punte di diamante grilline hanno messo in campo tutta la loro inaffidabilità internazionale. Su dossier sensibili come Venezuela e Afghanistan, il primo governo Conte seguì la linea chavista dei Cinque Stelle distinguendosi come l’unica fra le democrazie occidentali a non condannare apertamente il regime liberticida di Maduro, mentre sul ritiro del nostro contingente dall’Afghanistan andò ancora peggio, con una divergenza senza precedenti tra Difesa ed Esteri.
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Un’altra perla dell’«atlantismo» grillino pescata negli archivi è poi la firma del memorandum sulla Via della Seta, che mise in allarme tutti gli alleati Nato per il motivato timore che le infrastrutture strategiche del 5G finissero in mani cinesi per colpa del ventre molle italiano. È stato un rapporto talmente stretto, quello col regime di «mister Ping», da portare una delegazione dei vertici grillini in visita all’ambasciata cinese proprio nel giorno della riunione del G7 che doveva definire la strategia di contrasto al neoimperialismo cinese. Un’autentica scelta di campo per le autocrazie. Unica eccezione che conferma la regola: il rapporto con Trump che convinse l’amico Giuseppi a rispettare gli impegni in sede Nato e ad aumentare le spese militari fino al due per cento del Pil. Ma ora che c’è una guerra, e a Palazzo Chigi non c’è più lui, Conte è diventato pacifista. Una delle tante grottesche contraddizioni della parabola grillina.