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La grande farsa, i Cinque Stelle hanno scelto di suicidarsi in diretta tv

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I Cinquestelle sono riusciti nel miracolo di suicidarsi in diretta: giorni e giorni ad attirare le attenzioni dei media e poi ecco il suicidio perfetto. Il Garante parla come una sfinge (il contratto faraonico come consulente della comunicazione merita una comunicazione enigmatica...), il presunto capo politico finisce all’angolo dopo un balletto degno di don Lurio, e due delle cariche dello Stato più importanti - il presidente della Camera e il ministro degli Esteri - che si pigliano a pesci in faccia, in una sfida a metà tra Mario Merola e Tony Tammaro. Come se tutto questo non bastasse ecco l’annuncio dei dimaiani: siamo pronti per fare i nostri gruppi. Sarà contento Emilio Carelli, che faceva la spola con il Vaticano per accreditare l’ex ragazzo del San Paolo.

Davvero molto molto interessante questo scorcio di legislatura dove il cupio dissolvi pentastellato sancisce un altro pezzo dell’agonia. Forse non l’ultimo. Le mosse di Peppinello, dicevamo. Dopo giornate a sbraitare di pace, di risoluzioni, di «Basta armi» (lui che al governo ha fatto il record), si accartoccia in una risoluzione scritta a Palazzo Chigi e passata alla maggioranza, dove dell’impegno a non comprare più armi da destinare all’Ucraina non vi è traccia. «Questo è il testo. Diteci che volete fare», si è sentito dire il gagà con ciuffo e pochette. Al quale è bastato prendersi un gaviscon, distribuirne un po’ ai ragazzi del fu Movimento col consiglio di fare altrettanto. Ho sentito dire in Aula che sono riusciti a riaffermare la centralità del Parlamento. Sorbole... in una repubblica parlamentare già piegata al record di voti di fiducia e premier senza mandato elettorale, mi sembra un trionfo degno della Coppa del Nonno. Anche qui con buona pace di chi aveva fatto la campagna referendaria contro la riforma Renzi parlando di parlamento sovrano: certo, sovrano prima a colpi di decreti, dpcm e supercommissari; sovrano ora con il Governatorissimo Mario Draghi.

 

 

 

 

«Basta armi» dicevamo. In tempi di remake democristiani - dove pure Di Maio parla come fosse Vincenzo Scotti e Giuseppe Conte sembra il Giovanni Goria disegnato da Forattini - vale la pena ricordare l’adagio andreottiano: meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Tanto, le cuoia, le tirano altrove magari con le armi che compra l’Italia e che mandiamo in Ucraina e pure in Russia, nonostante l’embargo. A Putin tra l’altro continuiamo a pagare il gas. In rubli. Nella risoluzione dettata dal governo non c’è ombra di un disallineamento rispetto al grande business delle forniture d’armi. Quindi significa che ne compreranno ancora perché Draghi si è impegnato in tal senso. A costo di perdere consensi.

Gli italiani non ne possono più di pagare il conto delle emergenze create da coloro che ci stanno guadagnando come non mai: finanza, multinazionali, la grande industria delle armi, Big Pharma. Per ingrassare queste multinazionali i soldi li trovano sempre. Ma l’industria italiana non gira attorno ad armi e vaccini: l’agricoltura è in ginocchio per la siccità, chi la rimette in piedi? E la disperazione dei pescatori, degli artigiani, dei ristoratori, delle partite iva, insomma di tutti coloro che stanno facendo i conti con rincari di bollette e gasolio: chi se la prende in carico? C’è gente che è esposta finanziariamente a cui non danno nulla: cosa pensano di andare avanti a botte di sussidi e bonus? Il governo italiano non c’è. E l’Europa pensa ad allargarsi a est. Complimenti, così oltre all’abbaiare della Nato, avremo la provocazione di Bruxelles alle porte della Russia.
 

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