il commento
Riforme, solo un centrodestra vincente nel 2023 può rimettere mano alla giustizia
Il fallimento dei referendum sulla giustizia era ampiamente previsto per una somma di motivi di cui si è ampiamente parlato in questi mesi: la disaffezione a uno strumento di cui si è palesemente abusato, il disimpegno dei partiti, il boicottaggio dei media, l’astrusa tecnicalità dei quesiti, il voto in un solo giorno eccetera. Forse, però, c’è una causa molto più profonda e inquietante che è stata sottovalutata: il fronte garantista era infatti convinto che la questione giustizia avrebbe potuto essere una formidabile calamita di interesse, visto che il suo malfunzionamento incide sulla libertà dei cittadini e sulla stessa qualità della democrazia, ma era purtroppo un’illusione ottica, perché trenta lunghi anni di narrazione giustizialista hanno alimentato un giacobinismo diffuso e pervasivo, a sinistra ma anche a destra, che ha assunto le dimensioni di una patologia sociale ed è stato scalfito solo in parte dagli scandali che hanno minato la credibilità della magistratura.
I sette milioni di italiani che domenica hanno votato sì vanno considerati dunque come l’unico, autentico zoccolo duro garantista che ha preso coscienza della deriva in cui è precipitato il Paese da Tangentopoli in poi, con il partito delle procure protagonista incontrastato e intoccabile dello sconfinamento fra i poteri dello Stato, con mille innocenti in carcere ogni anno per i quali nessuno paga pegno, con il Pd costantemente aggrappato all’uso politico della giustizia per contrastare l’avversario di turno. Questo è un Paese in cui non fa scandalo che un moderato come Guido Crosetto, abituato a misurare sempre le parole, consigli alla leader del suo partito di tenere i toni bassi, perché dopo essere stata messa nel mirino dalla sinistra per la sua crescita elettorale è probabile che stia per mettersi in moto contro di lei la cavalleria giudiziaria. È questa forse la radiografia più efficace – e inquietante - di un sistema malato dove la commistione tra giustizia e politica è considerata non un’eccezione, ma un elemento fisiologico, e in cui l’obbligatorietà dell’azione penale si riduce a una foglia di fico alla quale non crede più nessuno. Questo è anche il Paese in cui il costruttore del cosiddetto campo largo, considerato un erede della tradizione riformista ma che ha appena ribadito la scelta irrinunciabile del sodalizio col peggior populismo grillino, ha scritto che bisogna porre fine «alla guerra dei Trent’anni tra giustizialisti e impunitisti», con una sgrammaticatura tale da cancellare il garantismo, ossia uno dei cardini della Costituzione.
In questo clima, insomma, e con tutta la gramigna giustizialista che è stata seminata in questi anni non c’è da meravigliarsi se alla straripante maggioranza dell’opinione pubblica, tutto sommato, questa giustizia penale va bene così, perché mettendo alla gogna la casta ha risposto e risponde a una richiesta primordiale dettata dall’invidia sociale che le crisi economiche a catena hanno drammaticamente esteso. E non inganni la perdita verticale di consensi dei Cinque Stelle, che sta punendo la loro totale incapacità di governo, non la vocazione giacobina. Per cui è giusto definire la riforma Cartabia come un brutto anatroccolo che non incide sulle storture più gravi della giustizia, a partire dalla degenerazione correntizia del Csm, ma in questo Parlamento a trazione grillina era oggettivamente difficile fare di più. Toccherà al centrodestra in caso di vittoria nel 2023, se ne avrà la forza politica e il coraggio, riportare il sistema giustizia nell’alveo costituzionale. Non dimenticando però i ripetuti naufragi dei precedenti tentativi.