il commento
La fucilata di Gianluigi Paragone sul salario minimo: è partito il balletto dell'ipocrisia
Il dibattito sul salario minimo è talmente interessante da essere ipocrita. Mi spiego. Che il lavoratore debba essere pagato e non sfruttato lo dice la Costituzione stessa, unica delle pochissime carte fondamentali che regola persino la retribuzione. Così infatti recita l'articolo 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa». Un articolo siffatto condensa la potenza delle tre grandi culture politiche che portarono linfa e ispirazione all'assemblea costituente: la cattolica, la liberale e la socialcomunista. Il tema del salario minimo dunque non ha nulla di attuale, anzi è persino in ritardo rispetto ai tempi in cui si cala, tempi in cui il lavoro è diventato occupazione, la retribuzione paga e il lavoratore un soggetto interscambiabile. Tralascio tutto il dibattito sul rispetto del lavoro e del lavoratore in questi tempi di pandemia, questione di cui ho scritto ripetutamente; la considero agli atti. Proviamo invece a mettere a nudo la propaganda di cui è impregnata la discussione sul salario minimo, alla luce di dove stanno portando il lavoro.
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Tutti i soggetti in commedia - dai partiti ai sindacati - gettano fumo negli occhi alla vigilia delle elezioni politiche, anticipando un tempo di gravissima crisi occupazionale. Da tempo vado ripetendo che nelle famiglie italiane è in corso un conflitto generazionale dove genitori e figli si contendono un contratto di lavoro serio: per i figli il tempo di un contratto solido non arriva mai (addirittura negli anni addietro hanno inventato un «sottopensiero» per cui alle giovani generazioni non interessa il contratto a tempo indeterminato: che fesseria!); per i genitori invece il contratto vero è stato progressivamente sostituito (in peggio) in nome delle ristrutturazioni aziendali, così da esporre i cinquantenni all'incubo di perdere il lavoro e non ritrovarlo più (da qui il ricatto dell'obbligo vaccinale agli over 50). Il lavoro insomma è una palestra dove i riformisti si esercitano a danno dei lavoratori: meno diritti per loro e retribuzioni da capogiro per manager e tagliatori di teste, pagati a prescindere dai risultati come dimostra il fatto che siano sempre gli stessi nomi a sedersi sulle poltrone importanti. Il futuro del lavoro non è arrivare adesso ad applicare ciò che in Costituzione è già sancito, cioé un parametro minimo salariale sotto il quale viene lesa la dignità e la libertà del lavoratore per sé e per la propria famiglia; il futuro del lavoro è vincere la sfida della piena occupazione, espressione di cui nessuna classe dirigente fa propria. Poiché nel mio piccolo sono anni che ritengo maniacale il tema della piena occupazione, non posso uniformarmi al coro sul salario minimo (ripeto: la questione non si deve nemmeno porre perché l'articolo 36 della Costituzione lo sancisce) ritenendolo ipocrita.
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Gli stessi che oggi stanno dibattendo sul salario minimo, da anni stanno costruendo un mondo del lavoro dove il lavoratore non serve più se non come elemento sostituibile da algoritmi, intelligenza artificiale e robotizzazione progressiva. Sia chiaro, non si tratta del secondo tempo della sfida luddista ma di una scelta venduta come modernista, esaltata dagli slanci di ammodernamento digitale e tecnologico. La sostituzione del lavoratore con la macchina o con l'intelligenza artificiale copre non solo un settore ma tutti i settori, pertanto tutti i lavoratori verranno messi in competizione e dunque ai margini. In poche parole, la classe politica oggi si ripara dietro il reddito di cittadinanza e il salario minimo per non dire tutta la verità ai cittadini: i lavoratori non serviranno più. E saranno trattati come una merce di scambio.