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Referendum, il Pd dimostra che sulla giustizia sta sempre dalla parte sbagliata

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I cinque no del Pd ai referendum sulla giustizia sono da una parte un atto di coerenza con la sua storia degli ultimi trent’anni, ma dall’altra anche l’ultima occasione mancata per una svolta garantista che non arriva mai. I niet orgogliosamente ufficializzati da Letta sono di fatto un invito all’astensione, e quindi il chiaro tentativo di far fallire la consultazione. E attenzione: non è una scelta di campo tattica, ma strategica, perché fa prevalere le ragioni dell’alleanza con i Cinque Stelle sull’alternativa riformista di Renzi, Calenda e Bonino, schierati convintamente per il sì. Nessuna sorpresa: quando si parla di giustizia, nei momenti cruciali il Pd si è schierato sempre dalla parte sbagliata, e la lunga stagione giacobina che ha subito il Paese porta anche le sue precise impronte.

 

Per giustificare i cinque no, il gruppo dirigente del Nazareno ha messo in campo un ampio armamentario di cavilli, distinguendo prima di tutto dagli altri i quesiti riguardanti l’ordine giudiziario, sui quali ritiene che la riforma Cartabia affronti i problemi in modo più incisivo: sul quesito della valutazione dei magistrati da parte dei non togati, ad esempio, il Pd osserva che la riforma approvata alla Camera prevede già il voto sulla professionalità da parte degli avvocati nei consigli giudiziari, così come è già contemplata l’abolizione dell’obbligo di raccogliere le firme per le candidature al Csm. Sulla separazione delle funzioni tra giudici e pm, poi, la riforma già riduce a uno i passaggi da un ruolo all’altro. Ma il Pd finge di ignorare che il quesito referendario punta a eliminare ogni passaggio tra funzioni, e che la sua approvazione aprirebbe la strada a una rivoluzione copernicana nella magistratura, verso una netta separazione delle carriere in linea con il processo accusatorio previsto dalla riforma Vassalli.

Sugli altri quesiti – abolizione della legge Severino e riduzione dei reati per i quali è prevista la carcerazione preventiva – il Pd obietta che ci si potrebbe trovare di fronte a casi in cui un condannato con sentenza definitiva per casi gravi possa essere eletto. Falso: il rischio di restituire la candidabilità di pregiudicati per reati gravi se vincerà il sì non esiste, perché dopo una sentenza definitiva in quei casi segue sempre l’interdizione dai pubblici uffici. Intendiamoci: è assolutamente giusto che un sindaco condannato per reati contro la pubblica amministrazione venga rimosso, ma solo dopo che la sua colpevolezza venga accertata da una sentenza definitiva. La legge Severino impone invece la sospensione quando un sindaco o un amministratore è ancora presunto innocente. 

 

È su questo punto che il Pd si aggrappa alle funi del cielo: «Sulla decadenza degli amministratori in caso di sentenza non definitiva è già incardinata al Senato una proposta per cambiare la legge, che è stata però bloccata dall’iniziativa referendaria». Come se in tutti questi anni, verificate le palesi incongruenze di queste norme liberticide, il Parlamento non avesse avuto tempo e modo per modificarla, e guarda caso questo non è avvenuto proprio per l’opposizione del Pd e dei suoi alleati grillini. Poi l’ultimo paradosso: «Il Pd è da sempre impegnato sul fronte del carcere come extrema ratio», ma voterà ugualmente no alla riforma della custodia cautelare.

 

Inutile nascondere dunque la cruda realtà: dai tempi del Pds di Occhetto, con le monetine a Craxi che aprirono il trentennio populista, a sinistra il vento giacobino non si è mai placato, alimentato da uno spregiudicato e sistematico uso politico della giustizia: una lunga guerra di posizione combattuta con tutte le armi e le alleanze possibili, a partire dall'appoggio incondizionato al partito delle procure. Sul giustizialismo, insomma, il Pd non ha mai davvero cambiato verso, come confermano plasticamente i suoi cinque no ai referendum di domenica. Motivo in più per votare cinque convinti sì.

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