IL COMMENTO

Referendum, votare "sì" è provare a cambiare un sistema che fa acqua da tutte le parti

Riccardo Mazzoni

Sei milioni di cause pendenti, più di sette anni per concludere i processi civili, più di tre per quelli penali, mille innocenti sottoposti ogni anno a custodia cautelare, 16 mila detenuti ancora in attesa di giudizio, e 8500 addirittura di primo giudizio; la fiducia nella magistratura crollata ai minimi storici, le procure divenute controllori della morale invece che del diritto, la supplenza più volte dichiarata nei confronti della politica, le intercettazioni senza rilevanza penale date regolarmente in pasto ai media, gli avvisi di garanzia trasformati da strumenti di tutela in preventive condanne senza appello; e dulcis in fundo: siamo il Paese che ha subito più condanne per l'irragionevole durata dei processi.

Ci sono questi e altri mille motivi per andare domenica alle urne e votare sì ai cinque referendum sulla giustizia, non solo per ottemperare a un preciso dovere civile, ma soprattutto per difendere i propri diritti di fronte a un ordine giudiziario straripato dai propri confini. E quando si crea uno squilibrio fra i poteri, con un ordine dello Stato in posizione di quasi onnipotenza, la campana suona per tutti, perché a rischio non c'è solo un corretto rapporto fra magistratura e politica, ma la vita di ogni cittadino, per cui i referendum vanno considerati come una legittima difesa.

La giustizia italiana è precipitata in una vera e propria crisi di sistema. Oltre il 60 per cento dei procedimenti si prescrive prima di arrivare in aula per la fragilità o la totale mancanza di prove, segno che troppi fascicoli vengono aperti con una superficialità purtroppo pari alla sofferenza di chi si ritrova nel tritacarne giudiziario, sulla base di una discrezionalità assoluta - contrabbandata per obbligatorietà dell'azione penale - con cui si sceglie chi mettere nel mirino e chi invece salvare. Cosa importa se nel frattempo si sono distrutte carriere e reputazioni? Tanto nessuno ne risponde mai, perché l'indipendenza della magistratura è sacra e l'organo di autogoverno usa un metro talmente corporativo che promuove il 99 per cento delle toghe, per cui il tasso di impunità nei casi clamorosi errori giudiziari rimane sempre altissimo, basti pensare alla carriera prestigiosa che fu riservata ai persecutori di Enzo Tortora.

Ebbene: i cinque quesiti referendari affrontano tutte queste oggettive storture, anche se sono uno strumento solo di tipo abrogativo, e toccano tabù come la separazione delle carriere tra giudici e pm che incidono - positivamente - nella carne viva della giustizia. Una questione cruciale mai davvero affrontata a causa della progressiva sudditanza della politica alla magistratura, ma che ci sia bisogno di arrivare a un sistema più equilibrato, nel quale i diritti della difesa non siano compromessi da un esercizio anomalo della funzione dell'accusa, è un dato di fatto. Tanto che il documento messo a punto dalla Bicamerale D'Alema già nel 1997 aveva previsto la separazione delle funzioni, due sezioni diverse del Csm e scelte di politica criminale fissate ogni anno dal Parlamento per evitare l'eccessiva discrezionalità delle singole Procure.

Il fronte giustizialista ha sempre messo in campo opposizione e disinformazione, accusando il centrodestra di voler porre i pubblici ministeri sotto il controllo dell'esecutivo, ma la separazione delle carriere in cui il giudice terzo viene distinto ope legis dal rappresentante della pubblica accusa non ha nulla a che vedere con la dipendenza dell'ufficio del pm dal governo, per quanto questa sia la regola che vige in moltissimi Paesi democratici. Domenica abbiamo l'occasione di voltare pagina, e di arginare il «partito dei pubblici ministeri» che per una lunga e drammatica stagione ha usato la giustizia come un maglio.