Non c'è bavaglio alla stampa se si tutelano altre libertà costituzionali
Il 17 dicembre scorso è entrata in vigore la norma sulla presunzione d'innocenza, in attuazione della direttiva europea del 2016 sul criterio dell'interesse pubblico per i contatti tra pm e giornalisti, che possono dunque realizzarsi esclusivamente attraverso le conferenze stampa, una novità che ovviamente vale anche per le forze di polizia. Nella riforma del Csm è previsto anche un illecito disciplinare per il magistrato che non rispetta le regole. Il fronte giacobino è ovviamente già insorto contro quello che definisce come un bavaglio alla libertà di stampa. Il ragionamento è più o meno questo: la pretesa di intervenire sulle modalità della comunicazione con un approccio burocratico ha prodotto regole potenzialmente lesive degli altrettanto rilevanti valori dell'informazione e dei diritti di cronaca e di critica. Con questo preambolo, il criterio di «interesse pubblico» fissato dalla direttiva europea viene di fatto rovesciato: in democrazia l'informazione sui processi penali deve essere la più ampia possibile, fatta salva la tutela delle esigenze di segretezza delle indagini. Ed è proprio sulla segretezza delle indagini che casca l'asino giustizialista ed affiora la cattiva coscienza di quei poteri che per trent anni - da Tangentopoli in poi - hanno sistematicamente eluso leggi e regole deontologiche trasformando la giustizia italiana in uno spettacolare colabrodo mediatico che ha calpestato la presunzione d'innocenza e insieme ad essa esistenze e carriere, soprattutto politiche.
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Una deriva molto ben descritta dai titoli roboanti e suggestivi dati dagli inquirenti a molte inchieste, specie in occasioni delle maxi-retate, diretti a influenzare l'opinione pubblica in senso colpevolista: basti pensare ad esempio a quante «Candidopoli» sparse per il Belpaese si sono concluse con raffiche di assoluzioni. Dopo decenni di gogne mediatiche, c'è voluta una direttiva europea per mettere un argine ai vasi comunicanti tra procure e giornali «amici». «C'è un'agenzia di stampa collettiva al servizio dei pm» disse Luciano Violante, ed è significativo che questa denuncia arrivasse non da Berlusconi, ma da un autorevole personaggio della sinistra. Fu Tangentopoli a segnare il momento più basso della sottomissione della cosiddetta élite giornalistica italiana alla magistratura, con i direttori dei grandi quotidiani che ogni sera facevano il breefing per concordare titoli di apertura congeniali alle esigenze del pool di Mani Pulite.
Il corollario di questo malcostume è stato il flusso di notizie sapientemente pilotate sull'indagato di turno, oltre che l'uso spregiudicato di intercettazioni senza rilevanza penale arrivate puntualmente sui giornali, anche quando c'era una legge che le vietava, senza che mai nessun magistrato abbia mai pagato, a differenza dei giornalisti. La libertà di stampa è un principio sacrosanto, ma ci sono altri principi costituzionali di uguale spessore da tutelare, e che per troppo tempo sono stati invece violati. Sotto la spinta del populismo prima dipietrino e poi grillino, e dell'uso politico della giustizia a lungo cavalcato dal Pd, l'Italia è diventata il Paese del moralismo da tricoteuses, con l'affermazione di una verità colpevolista precostituita che è una caratteristica peculiare dei sistemi totalitari. Per cui ogni passo verso il garantismo va salutato come una conquista di civiltà giuridica, anche se si tratta di un input burocratico recapitato da Bruxelles.