Silvia Romano torna a Milano, che succede sotto casa
L'applauso, la folla, gli striscioni, la calca di cameramen. Silvia Romano è riuscita a fatica a fare pochi passi dall'auto, che l'ha riportata a Milano, al portone del suo palazzo alla periferia Est della città, in via Casoretto. L'abito è lo stesso dell'arrivo nell'aeroporto militare di Ciampino il giorno precedente: un jilbab da passeggio molto comune negli ambienti dell’Africa orientale, dove è più diffusa la fede islamica. Durante i mesi di prigionia si è convertita e avrebbe preso il nome di Aisha (come la più importante sposa del profeta Maometto) ma, ha precisato, l'ha fatto spontaneamente, senza costrizioni. I pianti, la paura, le meditazioni, il cambio di fede: tutto, pensiero per pensiero, è documentato sulle pagine del diario che ha scritto in quei giorni. Un quaderno che i carcerieri le hanno concesso e che poi le hanno sottratto, tenendolo in Somalia. Ora la procura di Roma è in attesa di una rogatoria internazionale da Mogadiscio, per poter approfondire le indagini. Il colloquio che gli inquirenti, coordinati da Sergio Colaiocco, hanno avuto con lei nella caserma dei Ros a Roma è stato fiume, quattro ore per tentare di ricostruire il rapimento e i 18 mesi di prigionia. Neanche 24 ore dopo, il rientro di Silvia però fa già rumore in Italia. La Lega e Fratelli d'Italia vogliono avere notizie della liberazione, conoscere i dettagli della trattativa, avere conferme di un riscatto che sarebbe costato diversi milioni, andati a finanziare il gruppo jihadista al Shabaab, affiliato al Al Qaeda, che la teneva in ostaggio. Ma il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, frena: "Silvia è una giovane ragazza che ha vissuto 18 mesi da prigioniera. Prima in Kenya. Poi in Somalia. A soli 23 anni. Grazie all'impegno di donne e uomini dello Stato oggi è nuovamente in Italia, tra le braccia della sua famiglia. E questa è l'unica cosa che conta", scrive. Cerca di abbassare i toni e chiede rispetto. Così fa il presidente dei vescovi italiani, Gualtiero Bassetti: "Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia. C'è stata un'accoglienza, una festa da parte di tutti perché è stata una nostra figlia che ha corso pericoli enormi, che ha avuto coraggio e l'abbiamo potuta abbracciare almeno col cuore perché ora non si può fare con le braccia e con le mani e io che sono un tipo affettuoso patisco tanto", dice. Riconosce la sua grinta, la forza interiore, ma anche "la serietà della nostra politica estera perché i nostri servizi segreti, la politica nel senso più nobile ha fatto la sua parte". Chi rivendica una fetta importante di riconoscenza è la Turchia. Dopo la liberazione, ha diffuso una fotografia della volontaria a bordo di un veicolo del Mit, i servizi segreti di Ankara, con indosso un giubbotto militare turco e tramite l'agenzia di stampa nazionale Anadolu rivendicato di aver avuto un ruolo centrale nella vicenda. E già dal dicembre scorso.