40 anni senza manicomi
I danni di Basaglia, lo psico-comunista
Il 13 maggio del ’78, la pazzia fini in mezzo alla strada. A quarant'anni dalla fatidica legge 180, c'è aria di santificazione per Franco Basaglia, promotore della legge che aboliva i manicomi in Italia. Già gli furono dedicati fiction e santini ovunque, lui il leader italiano dell'antipsichiatria. Ne parlo per esperienza diretta, non in veste di psichiatra né di matto, come forse alcuni di voi sospettano, ma perché sono nato e cresciuto nella città dei pazzi, Bisceglie. Un centro che aveva nel suo cuore un grande manicomio, il più grande del sud e qualcuno - forse malato di megalomania - diceva addirittura d'Europa. Un manicomio, la casa della Divina Provvidenza, che accoglieva migliaia di malati, dava lavoro a migliaia di infermieri e medici e aveva diramazioni a Foggia, Potenza, Palestrina e Guidonia. Beh, io ricordo la tragedia prodotta dalla legge 180, cosa volle dire il «liberi tutti» ordinato alla follìa; quali drammi scatenò, quanti abbandoni e solitudini, matti allo sbando, incapacità delle strutture ospedaliere di accogliere i dementi in crisi, tormenti delle famiglie che si trovarono a dover sopportare, spesso in condizioni di povertà e di ignoranza, l'arrivo del famigliare pazzo. Quanti dolori esplosero allora e non trovarono strutture pronte ad aiutarli; leggete Mario Tobino che ebbe analoghe esperienze in manicomio da medico. Sarebbe follìa idealizzare i manicomi, ce n'erano alcuni che erano veri lager. Nessuno rimpiange la segregazione della follìa, che fu un frutto perverso del razionalismo scientista, perchè i manicomi sono figli dei lumi e della scienza positivista. Sappiamo quanti maltrattamenti e abusi, anche sessuali, quante speculazioni sulla pelle dei matti. Ma la loro abolizione, insieme all'assurda teoria che la malattia mentale non esiste, ma è frutto dei rapporti di classe e delle condizioni sociali, come sostenevano i seguaci sessantottini di Lang, Basaglia e dell'antipsichiatria, produsse ferite e traumi giganteschi. Di tutto questo non si racconta nella lirica epopea di Basaglia e lo si celebra come un Liberatore. L'idea che si potesse abolire la realtà e con la realtà la pazzia, fu la vera aberrazione ideologica di questa nociva filantropia. Fu l'egualitarismo, il comunismo applicato alla psiche; fu il delirio dell'immaginazione al potere che si fece antipsichiatria. Di Basaglia va riconosciuta la buona fede, il fervore ideale, ma non possono essere cancellati i paurosi danni della legge 180 che ancora perdurano. A loro vorrei opporre il sano realismo di un sacerdote del sud, meridionalista concreto, che edificò dal nulla grandiose Case della divina provvidenza per accogliere i malati di mente e poi pensò, vent'anni prima di Basaglia, alla necessità di superare la triste realtà dei manicomi. E studiò un progetto umano e realistico: il villaggio postmanicomiale. Si chiamava don Pasquale Uva, veniva dal mio paese, e lo chiamavano Zì' Terrone perché proveniva dalla terra e si definiva «operaio nella vigna del Signore». Mentre i meridionalisti teorizzavano il riscatto del sud negando radici, caratteri e tradizioni meridionali, quel cocciuto prete costruì dal nulla, pietra su pietra, tra collette, anticamere e testarde perorazioni, un grandioso ricovero per i malati di mente del sud. Il suo modello fu Cottolengo. Dovete pensare cos'era l'Italia e in particolare il sud prima che esistessero quelle strutture ospedaliere. I dementi vagavano per le strade, ridotti alla fame e agli stracci, derisi e aggrediti o a loro volta aggressivi e pericolosi. Ci vollero benemeriti come don Uva, e le suore che lo accompagnarono, le ancelle della divina provvidenza, a raccoglierli dalle strade e a dar loro cure, cibi, assistenza. Fu un progresso il manicomio rispetto alla situazione precedente. Fu un atto di pietà e di umanità, altro che segregazione. Ma don Uva capì quanta sofferenza covava dietro quelle grate e sapeva anche l'aspetto atroce dei manicomi. Così, dopo trent'anni di gestione degli ospedali psichiatrici, don Uva pensò a una bonifica dei manicomi e progettò i villaggi posmanicomiali, una struttura aperta che immettesse gradualmente i malati nel mondo libero. Progettò una città per i malati di mente che avesse al suo interno azienda agricola, pascoli, stalle, orti, vigneti e frutteti, laboratori, mulini e pastifici, cinema-teatro e caffè, circoli e sale di bigliardi, impianti sportivi. Pensò cioè di accompagnare gradualmente i malati verso la guarigione e l'integrazione attraverso una struttura fondata sull'ergoterapia e la ludoterapia, il lavoro e il gioco. Al loro fianco erano previsti non casermoni cupi e ospedali-carceri ma agili strutture di cura come avrebbero dovuto essere i centri d'igiene mentale. Il progetto, insomma, era di immettere in modo graduale e in un luogo solare, intermedio tra l'ospedale e la strada, i malati di mente curabili nella vita normale, separandoli dai malati più acuti. Aveva previsto nel dettaglio un piano di spesa e individuato il sito per il primo villaggio postmanicominale, presso il lago di Varano. Ma aveva ormai settant'anni e i primi malanni, non trovò adeguati interlocutori e poco dopo morì. Nessuno fu in grado di raccogliere l'eredità di quel progetto. Fu così che alla degenerazione degli istituti psichiatrici si oppose la follìa di chiuderli e si dichiarò cessata per legge e ideologia la malattia mentale. Ma se la verità conta qualcosa, ha giovato ai dementi più l'opera del beato Pasquale Uva che la generosa ma nociva utopia di Franco Basaglia. Ne scontiamo ancora i tragici effetti.