In tv il derby dell'arroganza
È stato istruttivo, a tratti divertente, lo scontro televisivo tra Matteo Renzi e Ciriaco de Mita. Due mondi erano a confronto, e non erano il Bene e il Male o il Moderno e l'Antico. Era un derby tra arroganza e presunzione, tra fuffa del fare contro fuffa del pensare, tra nonnismo e nepotismo. Arbitro in campo Mentana, arbitro a latere Mattarella, debitore ad ambedue per la sua carriera. È lui l'anello di congiunzione tra il prode Matteo e il fumoso e a tratti fumante Ciriaco. Chi credeva una furbata di Renzi accettare la sfida del vecchio De Mita per rimarcare che lui rappresenta il nuovo e invece Ciriaco come tutti i vecchi tirannosauri rappresenta il no alle riforme, deve ricredersi: è stata una mezza furbata ma anche una mezza scivolata, di cui si sarà pentito amaramente. De Mita è apparso tutt'altro che mite e ringoglionito, per dirla col suo gergo. Ha cercato di umiliare il premier e in parte c'è riuscito. A Renzi fumavano le orecchie da Star-trek mentre il Patriarca di Nusco gliele tirava a scena aperta. Renzi era in difficoltà contro i rancori del Vecchio Ciriaco, blindati dal rispetto che si deve ai Vegliardi e dalla patina di nostalgia che accompagna il mondo di ieri. E De Mita, in gran forma, ha dimostrato, tirando fuori la sua antica permalosità e supponenza, di essere poco democristiano nell'indole. La Dc era rotonda, lui è spigoloso, la Dc mediava, lui invece ieri separava; la Dc era corale, duttile e pragmatica, lui invece si considera un pensatore della politica al di sopra del volgo. I vecchi dc, a cominciare da Andreotti, simulavano umiltà, lui invece ostenta presunzione.«Intellettuale della Magna Grecia», lo definì con qualche ironia Agnelli. Come Aldo Moro a un livello più alto. Renzi giocava al suo ruolo di nuovo, alternando in modo meccanico riverenza e insolenza nei confronti del Capo Corrente del Capo dello Stato (l'allievo ora presiede la Repubblica mentre il suo maestro è solo sindaco di Nusco). De Mita ha ironizzato più volte sul «fiorentino», come se Renzi dovesse vergognarsi di essere tale. E Renzi si è trattenuto dall'ironizzare sull'irpino e sul suo gergo, sofisticato nei concetti quanto aborigeno nelle inflessioni. De Mita non aveva torto a rinfacciare al ragazzo fiorentino che la storia non comincia con lui e non finirà con lui. E Renzi non aveva torto a rinfacciare al Notabile nuschese e ai suoi sodali, di averci lasciato un grandioso debito pubblico e tanti aborti di riforme fallite. Lo scontro era tra uno che pensò le riforme senza farle e uno che vuol farle ma senza pensarle. Difficile dire chi sia peggio. Però il dibattito è stato istruttivo perché ci ha descritto nel giro di un'ora la parabola della Repubblica italiana. De Mita concorse ad affossare la prima repubblica, fondata sul bipolarismo imperfetto, come Renzi sta affossando la seconda, fondata sul bipolarismo alternato. De Mita affossò la Dc, Renzi sta affossando il Pd, per farne un partito personale. Con De Mita cominciò il declino della Dc, anche elettorale, la sua perdita di ruolo, anche perché il suo vero antagonista non era Berlinguer o il Pci ma Craxi e il suo Psi, ossia l'alleato principale di governo. Craxi ebbe gravi difetti ma più grandi virtù che segnarono l'Italia degli anni '80 ben più dell'opera di De Mita. Da una parte ci fu con Craxi un governo di lunga durata, per quei tempi, con forte capacità decisionale, forte ruolo internazionale, vera voglia di grande riforma, superamento dell'arco costituzionale. E l'Italia quinta potenza industriale. Dall'altra col demitismo ci fu la palude del politichese, la perdita del radicamento popolare democristiano, la seconda fase, calante, del compromesso storico, l'arco costituzionale, la pessima gestione del terremoto dell'Irpinia. Il lascito di De Mita all'Italia è quello. De Mita non ha lasciato opere cospicue, né da premier né da pensatore della politica. Nessuno può negargli intelligenza e sottigliezza di analisi, ma non si va oltre. Anche la sbandierata passione ideale per la politica o il maggiore spessore morale, non apparvero certo nel suo tempo, così segnato dal malaffare, dal clientelismo, dagli sperperi e dalla spartizione del potere. Con De Mita si persero pure le ultime tracce dell'ispirazione cristiana e popolare della Dc; perfino la cultura cattolica con lui, pensatore politico, se la passò male. Ne seppe qualcosa, tra gli altri, il grande Augusto del Noce, di cui ricordo gli spietati giudizi su De Mita. E non dimentichiamo che la fuoriuscita rancorosa di De Mita dal Pd avvenne solo dopo la sua mancata, ennesima ricandidatura. Altro che sdegnarsi per la volgare insinuazione di Renzi... L'apice della presunzione De Mita l'ha toccato quando ha detto in tv che lui ha fatto i conti col marxismo ma il marxismo non ha fatto i conti con lui. Neanche il più grande filosofo del Novecento si azzarderebbe a dire una sciocchezza simile. Un caso di demitomania... So che tanti odiatori di Renzi, a sinistra in particolare, hanno goduto a vedere come il Vecchio Satrapo, che non ha più nulla da perdere, maltrattava il giovanotto. Ma nessuno rimpiange l'era di De Mita, credo a ragione... Anzi, da quel degrado contorto della politica nacquero poi i fantasmi della seconda repubblica, i suoi tutori giudiziari, i leader populisti, il deserto dei partiti. Alla fine dei quali, dopo la monarchia berlusconiana, apparve Renzi come erede del Berlusconi-premier e Grillo come erede del Berlusconi-antipolitico. Ma il vuoto della politica risaliva all'era geologica demitiana (non solo a lui, ovviamente). A voler essere salomonici e positivi diremo che Renzi ha ragione di porre al centro della politica la decisione fattiva e De Mita ha ragione quando sostiene che la politica va pensata prima di farla. Poi, su come e cosa decida il primo e come e cosa pensi il secondo, meglio stendere un velo pietoso. Nel match tra il Vecchio e il Nuovo, tra l'Illusionista fiorentino e il Catapano bizantino, ci sentivamo neutrali, non rappresentati né dall'uno né dall'altro. Ma tra i due litiganti noi terzi non godevamo, almeno a pensare all'Italia nelle loro mani, ieri e oggi.