la fca passa all'Ad Manley
Finisce l'era del manager in pullover
Caro direttore, destino cinico e baro: nessuno più di Sergio Marchionne si può identificare in questo vecchio adagio. Quando la vita gli aveva regalato ogni tipo di soddisfazioni e guadagni immensi da potersi godere una vecchiaia dorata, la sorte gli è stata fatale e lo ha tolto dalla scena mondiale. Dopo Gianni Agnelli è stato l’unico italiano ad aver stabilito un rapporto diretto e amichevole con un Presidente Usa. Tanto Agnelli era di casa con John Kennedy, quanto Marchionne lo era con Barack Obama, concludendo con lui l’accordo storico con la Chrysler, capolavoro della sua vita professionale. Campione negli affari, mago dei numeri e dei bilanci ma anche nel trasformismo relazionale. Caduto Obama è subito andato a baciare l’anello a Donald Trump, così come ha fatto in Italia, diventando il primo dei renziani per poi essere il primo a rinnegare il povero Matteo. E anche in Fiat, dove fu chiamato dal più sfortunato degli Agnelli, Umberto, aveva capito che per spiccare il volo in quella controversa famiglia doveva ingaggiare un contenzioso violento con Luca Montezemolo, vincitore di 19 mondiali, che ne aveva aiutato l’ascesa ma era pur sempre il punto di riferimento di quello che rimaneva della vecchia dinastia che si incarnava con Suni, cavalla di razza e già ministro degli Esteri. Uscito di scena Luca dalla Ferrari, non ha avuto più alcun ostacolo e con mosse coraggiose, dal grande valore simbolico, con annunci mirabolanti, spesso rimasti sulla carta, ha portato la società fuori dalle secche, collezionando successi per gli azionisti a danno del sistema Paese. Fuori da Confindustria e dall’Italia, spostando la sede in Olanda, infischiandosene di quanti miliardi di lire il governo aveva destinato a Torino dal dopoguerra in poi con la beffa finale di un inglese come suo successore. Fumatore accanito fino a poco tempo fa, tanto da accendere una sigaretta prima di spegnere quella che stava aspirando, Marchionne non pensava proprio di dover cedere le armi. Meno di un mese fa, pranzando al Lingotto con un banchiere internazionale, parlava con sicurezza del suo futuro ormai perfettamente disegnato: fuori dalla Fiat e pronto, grazie a una buonuscita stellare, a diventare non solo il padrone ma anche il manager della Ferrari. Appassionato di musica classica, che accompagnava ogni momento della sua giornata, dai modi diretti, con una vita frenetica continuamente in aereo, è sempre stato tutto preso solo dall’azienda, dove aveva anche trovato il suo secondo amore, ed era capace di bombardare i suoi collaboratori con mille domande le cui risposte, quasi sempre, già sapeva. Lascia il mondo del lavoro con due grandi rimpianti: non aver vinto il mondiale con la Ferrari e non essere riuscito a chiudere l’accordo con la General Motor. Il testimone passa ora a John Elkann con il quale aveva un rapporto di sintonia straordinario. La complicità tra loro si percepiva immediatamente, mi ha confessato chi li ha visti insieme solo poche settimane fa. Ma né l’uno né l’altro ricordava che il destino a volte è cinico e baro.