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L'inferno di una madre surrogata

Mara Carfagna
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Nancy è una madre surrogata canadese, che dopo aver firmato un contratto con un'agenzia americana, si è fatta impiantare due embrioni che dopo nove mesi, sarebbero diventati i figli di una coppia sua connazionale. Quella di Nancy però non è una storia a lieto fine. A causa dell'impianto multiplo nel corso della gravidanza le è stata diagnosticata la gestosi. Ha difficoltà respiratorie, un' insufficienza cardiaca potenzialmente mortale, accumulo di liquido nei polmoni. Ha la pressione così alta che i medici temono che possa venirle un ictus, per salvare sia la sua vita che quella dei bambini le viene indotto il coma farmacologico e viene fatta partorire con un cesareo. Nel corso dell'operazione l'utero le viene rimosso e la ragazza entra in menopausa. Nancy ha raccontato la sua storia al National Post dopo aver letto la tragica vicenda di un'altra madre surrogata, Booke. Brooke però non è sopravvissuta alle complicazioni derivate dalla sua gestazione per altri. La morte per parto ai nostri tempi, ed in Paesi estremamente avanzati, è molto rara ma le terapie ormonali a cui viene sottoposta una madre surrogata aumentano il rischio ed i pericoli. Se una donna, che decide di fare la madre surrogata, per denaro e a fronte di un contratto ben dettagliato, corre rischi così alti negli Stati Uniti, cosa accade in Paesi meno controllati tipo l'India e la Cambogia? Negli ultimi anni, soprattutto grazie ai costi contenuti, l'India è stata la meta preferita di moltissime coppie che volevano avere un figlio con la gestazione per altri. Il mercato si è sviluppato così tanto da indurre il governo indiano a presentare una legge per limitarlo e regolamentarlo. Ranjana Kumari, direttore del Centro per la Ricerca Sociale senza scopo di lucro, ci da un'idea di quale sia la considerazione che si ha per una surrogata e racconta che in India: «Il bambino è il prodotto e la surrogata il mezzo di produzione. Anche chi si prende cura della surrogata lo fa fino a quando il prodotto viene consegnato. Dopo, questa diventa materiale di scarto». Agghiacciante. Ma non c'è solo l'India. Recentemente la Cambogia ha visto ultimamente salire le sue quotazioni alle stelle e la motivazione sono sempre i costi. Si parla di una cifra che può variare dai 15.000 ai 30.000 dollari, ossia un quarto rispetto a quanto si spende negli Stati Uniti. Quanto del compenso arrivi alla madre surrogata non è dato saperlo, ma non cambia la sostanza delle cose: siamo in presenza di una forma di sfruttamento del corpo femminile e di commercio di neonati. Se quanto accadeva in India, dove molte donne venivano costrette da mariti o padri ad affittare il loro utero, dove a molte donne venivano impiantati anche quattro embrioni contemporaneamente, salvo poi costringerle ad aborti selettivi, ci ha insegnato qualcosa, oggi la comunità internazionale dovrebbe essere particolarmente attenta ai «mercati emergenti» ed intervenire prima che sia troppo tardi. Quando diciamo che l'utero in affitto è una pratica aberrante che andrebbe universalmente bandita, ci riferiamo proprio a storie come quelle che abbiamo appena raccontato. Ma non solo, ovviamente. In Italia l'utero in affitto è vietato dalla legge 40, ma troppi sono i sistemi per aggirare questo divieto. Troppi sono gli italiani che vanno all'estero e poi tornano in Italia con un bambino avuto da una madre surrogata. E questo non può essere accettato. Non possiamo permettere, cosa invece accaduta, che un'agenzia statunitense per l'utero in affitto venga a fare un tour promozionale nel nostro Paese. Abbiamo più volte chiesto pubblicamente che l'Italia sia in prima linea nella battaglia per fermare la barbarie della maternità surrogata, ma i risultati ottenuti sono stati blandi. Parole di parvenza, che difficilmente si tradurranno in fatti. Risposte insufficienti ed inutili se vogliamo dirla tutta. Oggi, dopo che l'11 ottobre il Consiglio d'Europa ha bocciato un rapporto sulla maternità surrogata che conteneva qualche apertura alla pratica, chiediamo, ancora una volta, che l'Italia diventi capofila nella battaglia per la messa al bando universale dell'utero in affitto. Non è perbenismo o scarsa apertura mentale, è semplicemente voler porre fine ad un fiorente mercato costruito sul corpo e sui bisogni delle donne. Un commercio inaccettabile. Commercio del corpo femminile che viene «sfruttato» per la sua capacità riproduttiva e commercio di bambini che vengono visti come un prodotto. Prodotto tra l'altro che il più delle volte viene ritirato solo se perfetto. Liberiamoci da queste nuove forme di schiavitù.

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