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"Unisco cucina italiana e cinese. Ma se dite che è fusion mi arrabbio"

Paolo Zappitelli
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Non ditele che fa cucina fusion. Perché altrimenti si arrabbia. Lei, Stella Shi, è una chef di solo 25 anni, è cinese di seconda generazione, e da un anno ha aperto a Roma un ristorante al quartiere Monti, «Cu-Cina» (Salita del Grillo 6B) dove prepara piatti assolutamente innovativi, sperimentando, mettendo insieme idee diverse ma seguendo sempre una rigorosissima linea personale: «Per me la tradizione è fondamentale. Parto da quella, da quello che è un retaggio familiare. Poi però sviluppo una mia idea, interpreto. Il risultato è una cucina italiana con influenze cinesi». Una bella scommessa per una ragazza di 25 anni. «Aprire questo locale è stato un gesto a metà tra follia e spensieratezza. Ma era quello che volevo fare quando ho lasciato Giurisprudenza e mi sono iscritta all'Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi. Ora sono qui con una convinzione: la cucina non è una professione che si può abbandonare, è una scelta importante». Non vuol sentir parlare di cucina fusion perché? «Perché è un concetto inflazionato. E poi sono stati gli stessi cinesi ad aver rovinato millenni di tradizione offrendo cucina di bassa qualità a prezzi stracciati. Non è quello il senso che voglio dare al mio lavoro. Il cibo è cultura, viene da esperienze millenarie, va rispettato. Anche se poi alla fine quello che conta è il gusto che si riesce a trasmettere al cliente. Deve essere comprensibile, accessibile a tutti. E senza troppi fronzoli». Quindi piatti minimal? «Posso dire una cosa? Quando vedo tutte quelle decorazioni... sono cag... Cosa aggiungono? Se c'è qualcosa deve avere un senso, altrimenti non lo metto. Ma questo non vuol dire che i miei siano brutti o ineleganti. Però quello che c'è si deve sentire». Al bando quindi anche preparazioni con mille ingredienti e troppo complesse? «La complessità c'è ma non è visibile immediatamente. È nel lavoro a monte. Che però il cliente può vedere perché la sala è separata dalla cucina solo da una vetrata. Così si può seguire tutto quello che facciamo». Una definizione della sua cucina? «Identità. Un cliente non deve mai sentire la mancanza di identità. Deve sentire che questa è la mia idea di cibo e di nessun altro. E il mio ristorante è tutto improntato a questa filosofia. E poi ho deciso di non avere un menu fisso. Ogni due o tre mesi lo cambio completamente. Forse tra dieci anni lascerò un piatto "storico". Per ora devo stare in movimento, sperimentare, cambiare». Lei usa ingredienti particolari, la medusa o l'uovo "centenario. È difficile trovarli a Roma? «Mi rifornisco da piccoli produttori che conosco, evito la grande distribuzione. Ormai ci sono aziende che coltivano anche qui direttamente le erbe che si trovano in Oriente. Anche se ovviamente non hanno lo stesso sapore, gli stessi profumi. Il terreno è diverso, il clima è diverso. Per questo alcune cose addirittura me le faccio mandare da mio nonno, direttamente dalla Cina. Ma questo non si deve sapere... (ride)».

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