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Capocollo

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C'è chi lo chiama anche «lonza», «coppa» o «capicollo» Un salume dai mille volti che unisce Nord e Sud

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Anzitutto bisogna capirsi. Perché se mai vi capiterà di trovarvi nelle Marche e chiedere del "capocollo" difficilmente vi comprenderanno. Lì, infatti, la chiamano "lonza". E ancora peggio vi andrà salendo verso Nord dove avviene la trasformazione in "coppa". Ma il risultato non cambia. In tutti questi casi stiamo parlando dello stesso salume ricavato dalla parte superiore del maiale, quella dei muscoli del collo (da qui il nome capocollo). In realtà qualche differenza c'è. E non è legata solo alla zona di produzione. Tutto ruota attorno alla preparazione. Per realizzare la "coppa piacentina", ad esempio, una volta sezionato e pulito il pezzo di carne, lo si mette a contatto con una miscela di sale, pepe nero o bianco, un mix di cannella, chiodi di garofano, alloro e noce moscata. Centrale, oltre la salagione, è il "massaggio" del prodotto al termine del quale è prevista una fase di riposo di almeno 7 giorni in celle frigorifere. Quindi la copertura con "pelle di sugna" (una membrana naturale del suino) e la legatura realizzata con estrema maestria. Una settimana di asciugatura in essiccatoio e poi una stagionatura di almeno sei mesi. Si potrebbe andare avanti per ore a raccontare i segreti di ogni singola preparazione. Ma forse vale la pena soffermarsi su quelle che vengono considerate come le terre del capocollo: la Calabria e la Valle D'Itria, in Puglia. La versione calabrese, raccontano, risalirebbe addirittura ai tempi delle colonie della Magna Grecia. Oggi è un prodotto Dop e la sua particolarità, probabilmente, risiede nel fatto che, dopo la salatura, la carne viene lavata con acqua e bagnata con aceto di vino (anche qui è assolutamente vietato dimenticare il massaggio). La stagionatura deve essere di 100 giorni. E passiamo alla Puglia. In particolare a Martina Franca (Taranto) che, con i comuni di Cisternino (Brindisi) e Locorotondo (Bari), rappresenta la «patria» del capocollo. Che non a caso prende il nome di capocollo (o capicollo come lo chiamano spesso gli autoctoni) di Martina. Qui la tradizione orale ci dice che il prodotto era già nel XVIII secolo il più «conosciuto e richiesto» in tutto il Regno di Napoli. A ben vedere è forse quello con la preparazione più caratteristica. Non a caso viene disciplinata e controllata in maniera ferrea dal Consorzio del capocollo di Martina. E, da qualche anno, anche da Slow Food. Infatti il pezzo, dopo 2-3 settimane di macerazione sotto sale, viene lavato con una preparazione a base di vino cotto e erbe della zona. Dopo l'essiccatura si procede, ed è qui la "novità", all'affumicatura. Che avviene bruciando aromi e corteccia di "fragno", una quercia presente solo in questa parte del territorio pugliese. Una pianta da sempre indissolubilmente legata al capicollo visto che, oltre ad essere utilizzata come "combustibile", fornisce ghiande che, nel passato, servivano per l'alimentazione dei maiali mentre (tostate erano anche un succedaneo del caffè). Il legno, particolarmente duro e resistente all'acqua, veniva poi utilizzato per la costruzione di imbarcazioni e non solo. Tornando al nostro salume, la fase di stagionatura varia a seconda del produttore e può arrivare anche a 90 giorni. A quel punto è pronto per essere gustato. Come? Il suggerimento è quello di mangiarlo al «naturale». Tagliato sottile e accompagnato da qualche fetta di pane (anche su questo fronte la Puglia non delude). Qualcuno consiglia di accompagnarlo ai fichi. Ma poco importa. Fate voi. In fondo c'è già chi si è preso la libertà di chiamarlo con tre nomi diversi.

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