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Street art e demenza

Gian Marco Chiocci
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Al Tempo siamo abituati a raccontarvi Roma in tutte le sue prospettive nella speranza di accendere ogni volta un faro sul buio pesto della macchina amministrativa capitolina. Oggi vi facciamo vedere la città imbrattata, deturpata, lordata dai writers. Sappiamo che esiste un vecchio duello dicotomico, se i graffiti siano arte oppure no, e un rovello sul «fino a che punto» può spingersi l'habitué della bomboletta per non diventare un teppista del colore. Per noi, e speriamo per voi, il confine è tracciato: i graffiti non sono arte se feriscono una coerenza architettonica e storica. Non lo sono se mettono un autografo nel degrado già esistente. Sono arte per modo dire quando non hanno senso al di là di certe elucubrazioni personali di chi li traccia, quando sono scarabocchi o penosi arzigogoli lessicali. Insomma, sono arte quasi mai, e quasi mai toccano anche solo di striscio gli schizzi tratteggiati dal Dio Banksy portato a Roma dal mecenate Emanuele a cui si deve anche la riqualificazione di Tor Marancia con la vera street art sulle pareti della borgata. I graffiti «abusivi» sporcano ciò che è di tutti, insozzano una Capitale già sporca di suo, demoralizzano chi vi abita e chi vi sverna per turismo. L'Amministrazione non concepisce però la gravità della situazione tanto che destina allo scopo sempre meno soldi (quest'anno appena 50mila euro). E se nella città della Grande Bellezza lasciamo che questa meraviglia venga stuprata impunemente con ghirigori e segnacci vuol dire che non siamo degni del regalo ricevuto - intonso - dai nostri avi, i quali dopo avercelo preservato da incendi, invasioni e carestie rischiano oggi di perderlo. Per ignavia. Per sempre.

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