Inferno Afghanistan. Ecco la verità sul ritiro dell'Occidente da Kabul
E ora Kabul? L’inferno afghano vent’anni dopo sarà come vent’anni prima? È la trama appassionante del nuovo libro dato alle stampe da Chiara Giannini, brillante reporter di guerra del Giornale, che ha lavorato assieme a Simone Platania, esperto di storia mediorientale. Il titolo – «Inferno a Kabul, la vera storia del ritiro occidentale dall’Afghanistan» – mette in campo teorie e azioni sconosciute ai più. Svelando strategie militari e raccontando politiche che hanno determinato gli eventi. In molti si sono chiesti che cosa possa esserci dietro a quello che è stato indicato come il frettoloso ritiro della coalizione internazionale dall’Afghanistan. Altra domanda: quei vent’anni che le nostre Forze armate hanno passato in quella terra sono davvero serviti a qualcosa, visto il drammatico epilogo? I dubbi permangono, soprattutto se si pensa ai costi reali. In vite umane (gli Stati Uniti contano 2445 caduti e la coalizione 1140). Dall’Afghanistan sono tornati circa 20mila feriti e mutilati. 2 i trilioni di dollari spesi, una cifra enorme e che oggi è considerata inutile. Il libro della Giannini ha una prima parte a carattere storico, incluso il racconto dell’ultima notte dell’inviata a Kabul.
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Con quattro interviste a generali (Battisti, Bertolini, Preziosa e Morabito), e due a madri dei Caduti, oltre alle conclusioni. Da Kabul l’Occidente se ne è andato per realpolitik, ma sulle conseguenze si è riflettuto poco. L’unico obiettivo sensato della missione era quello di contenere a livelli «minimi» la minaccia terroristica. Il che – raccontano le pagine del libro con le interviste ai militari - richiama alla memoria il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam, a seguito degli accordi di pace di Parigi del 21 gennaio 1973, che due anni dopo determinò la vittoria comunista (aprile 1975). All’epoca Henry Kissinger (Consigliere per la Sicurezza Nazionale), il negoziatore di Washington, aveva preteso un «intervallo decente» prima che il Vietnam del Sud cadesse in mani comuniste. La sorpresa di questi tempi, però, è stata la resa delle forze di sicurezza afghana. Perché, dice alla Giannini il generale Battisti, «i guerriglieri di oggi sono molto diversi dai mujaheddin che affrontarono i sovietici negli anni Ottanta. In questi anni i talebani si sono impadroniti, al pari dello Stato Islamico in Iraq, di equipaggiamenti e armi delle forze di sicurezza afghane. Sono più addestrati, hanno una struttura operativa molto simile a quella di un esercito regolare, sono molto più organizzati e capaci di combattere. L’azione militare è stata preceduta da un’azione di convincimento (corruzione, minacce, intimidazione, ecc.) al tradimento dei vertici politici e militari provinciali che hanno influito decisamente sulla volontà combattiva delle forze di sicurezza governative, creando, dopo le prime vittorie talebane, la "sindrome della sconfitta" che si è propagata rapidamente a tutte le altre guarnigioni».
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È indubitabile che il ritiro dall’Afghanistan nelle condizioni previste dall’accordo di Doha appaia come la sconfitta politica di tutta la Comunità Internazionale, delle Nazioni Unite, Dell’Unione Europea, della NATO e di ognuna delle 51 nazioni che hanno partecipato alla missione. L’esperienza storica insegna che la pacificazione di un Paese o di una regione comporta tempi lunghi (almeno due-tre generazioni) e misure finalizzate. Eppure, ed è quello che emerge con nettezza, nei vent’anni di “occupazione”, la società afghana, pur con mille difficoltà, si è sviluppata in tutti i settori, tenendo anche conto delle condizioni del 2001. Un processo visibile e inconfutabile che difficilmente potrà essere represso del tutto. Ecco il racconto che viene dalle testimonianze raccolte nel libro. Oltre 9 milioni di bambini andavano alle scuole elementari (40% ragazze – 3,5 milioni); 300.000 studenti frequentano l’università (100.000 ragazze), nonostante il numero e la frequenza degli attacchi terroristici in tutto il Paese rivolti alle scuole, insegnanti e studenti. In questi anni sono stati costruiti 4500 edifici scolastici e formati più di 200mila insegnanti dei quali oltre il 30% donne. Nel 2001 solo un milione di ragazzi (e poche migliaia di ragazze) si recavano a scuola. L’80% della popolazione possiede un cellulare; il 66% un televisore e il 18% usa internet, con maggiore sviluppo nella regione centrale di Kabul (26%), nel Sud-Est (18%). Sono attive 45 stazioni radio, 75 canali televisivi, agenzie di stampa e centinaia di pubblicazioni, inclusi 7 quotidiani. A Kabul sono presenti 16 istituti bancari. Sono state costruite oltre 33mila chilometri di strade asfaltate (2500 km nel 2001), la più importante autostrada del Paese, la cosiddetta Highway 1 o Ring Road, che unisce le grandi città di Mazar-e Sharif, Kabul, Ghazni, Kandahar e Herat è completata al 90%. Anche il settore della salute pubblica ha visto un sensibile miglioramento negli ultimi anni. Circa il 90% della popolazione ha accesso all’assistenza sanitaria di base, a fronte del solo 9% nel 2001. La mortalità materna è diminuita del 15% e quella infantile del 35%, grazie anche alle circa 1700 ostetriche professionali che forniscono assistenza al parto. Oltre il 61% della popolazione ha accesso all’acqua potabile. Ora, il rischio concreto è che tutto possa venir cancellato dal nuovo regime. L’Occidente dovrà tornare?
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