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di Gennaro Malgieri Alla fine degli anni Dieci del secolo scorso l'Italia era percorsa da movimenti intellettuali che sarebbero stati il lievito di rivolgimenti politici che avrebbero fatto la storia del Novecento.

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Scrivevanolibri che facevano discutere e fondavano riviste che usavano come martelli per scuotere coscienze e formare una classe di innovatori. Il "Leonardo" e "La Voce" prima, "Lacerba" poi e, nel mezzo l'eresia chiassosa, colorata ed intelligente del Futurismo, avviarono quella "rivoluzione di carta" che avrebbe incendiato l'Italia prima dello scoppio della guerra mondiale e poi, indirettamente, avrebbe gettato benzina sulle inquietudini di una generazione che l'Italia se la sarebbe presa, con la poesia di d'Annunzio, con il sindacalismo rivoluzionario, con il nazionalismo, con il razionalismo politico di Mussolini. Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879-1964), provenienti dal sodalizio con Giuseppe Prezzolini, il primo gennaio 1913 fecero uscire a Firenze il quindicinale "Lacerba", con la collaborazione, tra gli altri, di Aldo Palazzeschi e di Italo Tavolato. Una rivista senza padrini, né padroni, ma con un mecenate-stampatore che rese possibile l'impresa: Attilio Vallecchi, ben più d'un semplice tipografo, un editore che avrebbe contribuito al rinnovamento delle lettere sviluppando in collane prestigiose quanto i giovani intellettuali producevano nelle loro eccentriche riviste. "Lacerba", pur ponendosi idealmente sulla scia del vocianesimo prezzoliniano dal quale Papini e Soffici si erano distaccati polemicamente, soprattutto per la loro attrazione verso il futurismo marinettiano, intendeva rappresentare una tendenza che oggi chiameremmo superomistica, e vitalistica, mutuata dal timido e superficiale approccio a Nietzsche, scomparso tredici anni prima, ma anche influenzata da Stirner che con la sua opera diffuse l'individualismo in mezza Europa. Naturalmente gli accesi articoli dei due direttori (che mai comparvero come tali, tranne nell'ultimo periodo quando la rivista si identificò esclusivamente con Papini) contribuivano a fomentare il nazionalismo e l'interventismo avvicinandola ad altre esperienze intellettuali coeve e passate nelle quali pure i due giovani scrittori avevano avuto un ruolo come ad esempio "Il Regno" di Enrico Corradini ed il quotidiano "L'Idea nazionale" di Federzoni, Rocco, Maraviglia. Ma era soprattutto l'anticonformismo la "cifra" della pubblicazione la quale fin nel titolo voleva qualificassi come originale al punto da destare polemiche, ma anche irritazioni. Riprendeva, infatti, il titolo di un'opera incompiuta del poeta medievale Cecco d'Ascoli, L'Acerba, omettendo l'apostrofo, un poemetto dagli accenti aspri di un "minore" che aveva osato contrapporsi a Dante. Un intento chiaro dei promotori della rivista che sotto la testata, per essere più espliciti apposero un verso di Cecco: "Qui non si canta al modo delle rane". Ce n'era quanto bastava per imporre i due trentenni all'attenzione della cultura del tempo come elementi di una rottura che irritava i passatisti ingabbiati nelle borghesi piccole certezze di un'Italia ancora inconsapevole del proprio destino. Se qualcuno avesse nutrito dubbi sull'originalità dell'operazione e non avesse avuto chiari gli intendimenti di "Lacerba", l'editoriale (chiamiamolo così) del primo numero glieli avrebbe tolti. "Introibo" s'intitolava e in sedici succinti punti snocciolava il programma papinian-sofficiano. Semplice e rivoluzionario che riconosceva "agli uomini di ingegno, agli inseguitori, agli artisti il pieno diritto di contraddirsi", sostenendo che "tutto è nulla nel mondo, tranne il genio". Ne conseguiva che la libertà era la sola "religione" alla quale si sentivano votati: "non chiediamo altro; chiediamo soltanto la condizione elementare perché l'io spirituale possa vivere". E, consci, della sfida, aggiungevano:"Queste pagine non hanno affatto lo scopo d far piacere, né d'istruire, né di risolvere con ponderanza le più gravi questioni del mondo. Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale. Sarà uno sfogo per il nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianesimi e moralismi". Una chiarezza che fatalmente fece incontrare "Lacerba" con il futurismo. Il 15 ottobre 1913 ne pubblicò il "Manifesto politico" , invitando gli elettori a votare contro le liste Clerici-liberali-moderate di Giovanni Giolitti e di Vincenzo Ottorino Gentiloni. Il documento marinettiano, sposato da Papini e Soffici, si apriva con una dichiarazione di rara intensità: "Italia sovrana assoluta - La parola ITALIA deve dominare sulla parola LIBERTÀ. Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani". E poi "difesa economica e patriottica del proletariato", "politica estera cinica, astuta e aggressiva", "modernizzazione violenta delle città passatiste", "anticlericalismo e antisocialismo". Insomma, tutto l'armementario che sarebbe stato affinato nel corso dei decenni successivi, ma che costituiva la premessa di quell'ideologia italiana che avrebbe connotato il Novecento. Sulla rivista intervennero Apollinaire, Boccioni, Balla, Severini e naturalmente Marinetti. Ma anche Ungaretti, Sbarbaro, Agnoletti tutti uniti, come scriveva Papini, sulla "necessità della rivoluzione" che introduceva all'interventismo per il quale "Lacerba" si spese molto. La lotta contro l'Antitalia, che per Papini più che l'Austria era la Germania, veniva così motivata: "L'Italia è la mia patria, è il posto dove sono nato, dove ho lavorato, dove ho sofferto: questo amore è più forte di me". L'Intervento per Papini aveva anche altre motivazioni. Come scrisse altrove, per lui "l'Italia doveva entrare in guerra per motivi generali, quasi metafisici, di necessaria difesa contro una certa cultura, una verta civiltà, una certa grandezza ostile e repugnante che s'è fatta carne e ferro nella Germania, ch'è rappresentata con tutta la sua forza ordinata e tremenda dalla Germania". Il controverso rapporto con i futuristi, l'incalzare della guerra, le incomprensioni tra collaboratori, i tumulti che s'annunciavano congiurarono per la cessazione delle pubblicazioni il 22 maggio 1915, due giorni prima dell'intervento italiano. Restava l'impeto distruttivo ed una grande pagina di rinnovamento letterario e culturale. Non sarebbe andato perduto. L'iconoclastia di "Lacerba" aprì nuovi orizzonti, probabilmente ben oltre le aspettative dei suo fondatori.

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