di Antonio Angeli Si è spento ieri, all'età di 83 anni, Carlos Fuentes: celebre scrittore messicano, narratore di lingua spagnola tra i più ammirati al mondo, uomo di cultura di respiro internazionale.

Ilpresidente si è detto profondamente rattristato dalla perdita di questo «amato e ammirato» autore. Fuentes è stato soprattutto il narratore delle grandi allegorie sociali, osservatore spietato delle pubbliche virtù inevitabilmente accompagnate dai vizi privati. L'ultimo suo libro è arrivato da poche settimane sugli scaffali dei librai italiani: «Destino», editore Il Saggiatore, collana Narrativa, 440 pagine, 19 euro. In questo libro, un grande progetto nel quale l'autore ha profuso un grande energia, c'è tutto lo spirito, dissacrante, amaro, eppure lieve del grande narratore nato a Panama. Lì infatti vide la luce Fuentes l'11 novembre del 1928. Era figlio di un diplomatico e questo lo portò a vivere fin da bambino in molti paesi dell'America Latina e negli Stati Uniti dove, come ha ricordato egli stesso, imparò ad amare il suo Paese. Un amore però tormentato che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Fuentes nel suo peregrinare da bambino e poi ragazzo per lo sterminato continente americano si trovò a leggere e poi ad amare la letteratura. Della parola scritta divenne ben presto un appassionato attraverso la lettura di autori diversi e particolari, tutti comunque dotati di una straordinaria profondità: negli States imparò la scanzonata, mesta e profonda filosofia di Mark Twain, ma apprezzò molto anche gli italiani Edmondo de Amicis ed Emilio Salgari. E forse è proprio riflettendo su questi due autori amati in gioventù che si può dischiudere una prima riflessione sul (futuro) Fuentes scrittore. De Amicis è un campione di retorica, Salgari, in fondo è dotato di una retorica assolutamente opposta: quella della ribellione, della lotta, dell'opposizione al potere. Ecco, il giovane Fuentes, costretto ad una vita da ambasciatore, da un Paese all'altro, imparò a conoscere la retorica, sotto ogni forma, per essere poi lui stesso al di fuori da ogni cliché. Fu lui stesso ambasciatore, in Francia, fra il 1972 e il 1978, ma dedicò poi la maggior parte del suo tempo alla scrittura, pubblicando numerosissimi saggi e romanzi, fra cui «Gringo Viejo», che gli valse il premio dell'Istituto Italo-Latinoamericano nel 1989, che si aggiunge a molti altri riconoscimenti da lui ottenuti, come il Premio Cervantes e il Grinzane Cavour. Nel 2004 ha vinto anche il Premio letterario Giuseppe Acerbi con il romanzo «Gli anni con Laura Diaz» e nel 2009 la Gran Cruz de Isabel la Catolica. Tra i suoi romanzi, tutti puntualmente pubblicati da Il Saggiatore, l'aria sulfurea di universi insondabili, di uomini cinici condannati a fini terribili e preannunciate, donne bellissime ed effimere. Fuentes era oltre la retorica e oltre la ricerca di un mondo migliore, l'autore andava alla ricerca del peggio del mondo, per raccontarlo in modo spietato prima di tutto a se stesso. Nel 2009 esce «Tutte le famiglie felici», che, con ironia tutta sudamericana riporta in copertina una «famigliola» di scheletri scarnificati con corone, cappelli, feluche, occhiali. Sedici racconti brevi divisi da altrettante prose in versi in cui, sembra quasi superfluo dirlo, nessuna famiglia è davvero felice né lo sarà mai. Ancora tra le sue opere: «Il trono dell'aquila», «L'albero delle arance», «La morte di Artemio Cruz», «L'ombelico della Luna». Uno spietato ritratto, in quest'ultimo romanzo, dell'alta borghesia di Città del Messico nell'era postrivoluzionaria. E il tema sociale è perfettamente sintetizzato nel suo ultimo «Destino». Un libro corale, che offre la narrazione complessa di una tragedia con molti attori. Tra protagonisti: Josué Nadal e l'amico fraterno Jericó, in primo piano le discussioni di filosofia di Josué con padre Filopàter, e poi le avventure con l'infermiera Elvira Rios. E altri personaggi, come la bella ragazza con un'ape tatuata sul sederino. Tutti messaggi simbolici, tutte piste che conducono allo stesso, tragico destino. La protagonista vera del romanzo, alla fine, sarà la morte che presenta un'incontestabile nota di verità: chi è morto riesce a vedere i fatti della vita con un distacco ed una oggettività francamente impossibili da vivi. Questa funebre nota noir accompagnerà il lettore per tutto il libro che è un viaggio nella quotidiana disumanità della società messicana. Ma la Città del Messico di Fuentes non è «quella» città, ma piuttosto diventa la quinta ideale per la rappresentazione del dramma della vita. Un dramma che presenta delle assolute terribili ricorrenze: l'avidità, la sete di potere, il cinismo. E poi la paura: i personaggi di Fuentes sono tutti spietati e violenti e questo, ci insegna il grande scrittore, accade a chi è condannato ad essere schiavo della paura.