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di Antonio Angeli Nell'ultima biografia (ultima di una lunga serie) di Ernest Hemingway l'autrice Linda Wagner-Martin dedica questa sua fatica a «tutti gli studenti e i ricercatori che hanno reso così appagante la mia carriera di americanista».

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Ungrazie sentito agli studenti, dunque, ma soprattutto a lui, al grande Ernest, che regge sulle spalle, assieme a pochi altri, l'intero peso delle «belle lettere» del Nuovo Mondo. Sì perché diciamocelo, la Letteratura Americana, se esiste, lo deve a lui. Ben poca cosa sarebbe senza la figura immanente del vecchio «Papa». Dell'autore de «I quarantanove racconti» è arrivata l'altroieri in libreria la nuova edizione di quest'ultima biografia: «Ernest Hemingway. Una vita da romanzo», firmata da Linda Wagner-Martin, professoressa dell'Università del Nord Carolina, accanita studiosa della narrativa statunitense del Ventesimo secolo. E se l'intera letteratura americana sarebbe poco senza «Il vecchio e il mare» e «Per chi suona la campana», figuriamoci quella del Ventesimo secolo. Di quest'ultima biografia si sentiva il bisogno: la Wagner-Martin apre il sipario (ma in realtà solo uno abbondante spiraglio, perché c'è ancora molto da scoprire) sul mistero di Ernest Hemingway. Che fosse un grande è fuori discussione, come il fatto che ha scritto le pagine più belle del Novecento. Ma i «meccanismi» interni dell'uomo e dell'artista, dietro la luce dell'immancabile bicchiere di liquore tenuto disinvoltamente in mano, sono nel buio più totale. Né vale a qualcosa, o forse addirittura serve solo a confondere le idee, quella «foto» di Hemingway, duro, infaticabile bevitore, macho cacciatore, scorbutico e intransigente. Un Hemingway tagliato con l'accetta che non avrebbe mai potuto creare gli universi di assoluto lirismo che ha regalato al mondo. Linda Wagner-Martin pone la sua tesi, affascinante: Hemingway era un camaleonte empatico: «Quando era in compagnia dei suoi amici maschi - nelle estati in Michigan, nei caffè di Parigi, in guerra, sulla barca Pilar - o assieme ad altri corrispondenti durante la Guerra Greco-Turca, la Guerra Civile Spagnola o le due guerre mondiali, egli affettava una mascolinità attentamente costruita. Quando poi si sentiva addosso gli occhi avidi dei media, prendeva a comportarsi male di proposito, o almeno alimentava con il suo comportamento il suo status di celebrità: era, nel migliore dei casi, imprevedibile. Nei suoi soli 62 anni di vita, Ernest Hemingway, che fosse in buona o in cattiva salute, è sempre apparso fiero della sua abilità di camaleonte». Così nella vita di quest'uomo chiuso nell'esercizio delle massime qualità virili, emergono importantissime figure femminili, la madre e le mogli, che in modo profondo influenzavano il suo umore e la sua eccelsa vena letteraria. Il grande Ernest nacque in una cittadina dell'Illinois il 21 luglio del 1899. Fin da bambino su certe cose mostrava di avere le idee chiare, il suo slogan era: «Mai paura di nulla». Scavezzacollo, ma in fondo un «secchione»: bravo a scuola, meno nella musica, suonava il violoncello, aveva ottimi voti in scienze, latino, matematica, e biologia, tanto da guadagnare, nel 1917, ultimo anno delle sue superiori, un titolo che da noi suonerebbe come «primo della classe». Linda Wagner-Martin, travestita da storica e biografa, esercita in realtà la professione di psicologa raffinata e ci porta per mano nella vita «da romanzo», come recita il titolo, di questo grande del Novecento. Venne la guerra, che per lui durò un mesetto, ma gli costò più di duecento schegge di metallo nelle gambe. I giornali statunitensi lo acclamarono come un eroe. Ma per lui, allora, era importante un'altra cosa. Nell'ospedale della Croce rossa americana a Milano, in via Manzoni 10, non lontano dal Duomo, Ernest visse il suo primo amore, per Agnes. Voleva sposarla, ma ricevette un rifiuto che non scordò per tutta la vita. Comunque si consolò presto, sposando Hadley Richardson, che si accollò volontariamente il sostegno pratico ed economico della casa, per lasciare che il suo uomo si dedicasse completamente alla scrittura. Dietro ad ogni grande uomo c'è sempre una grande donna. Anzi, quattro o forse cinque, sei, sette. Venne poi la seconda moglie Pauline Pfeiffer, a cui seguirono anche i matrimoni con Martha Gellhorn e Mary Welsh che, nonostante i suoi insulti, gli eccessi d'ira dovuti all'alcol, e i tradimenti, più che altro solo immaginari, rimase al suo fianco fino alla fine. E a proposito di figure femminili, sottolinea la Wagner-Martin, a Hemingway non mancarono mai il sostegno delle sorelle Ursula e Sunny, e soprattutto la spinta della madre Grace. Tra donne e alcol il «triangolo» della vita di Hemingway si chiude con i soldi: negli ultimi giorni della sua vita, celebre e osannato, dopo aver raggiunto la vetta della fortuna letteraria, vincendo il Pulitzer e anche il Nobel, continuava ad essere tormentato dai problemi economici. Forse anche questi immaginari, come i tradimenti. Si accende così una nuova luce, tragica e ironica, come era lui stesso, sulla psicologia dello scrittore-simbolo dell'America e del Secolo Breve.

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