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di Mario Bernardi Guardi «È a Baudelaire che la poesia moderna deve l'aver preso coscienza della qualità in certo senso teologica e della dispotica spiritualità della poesia, che per lui si chiama ancora Bellezza».

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Troppoprevedibile la fraternità d'armi e la reciproca ammirazione tra sovversivi di rango, ma qui non abbiamo a che fare con un «bello e dannato» che rende dovuto omaggio a un suo simile. Bensì a Jacques Maritain, uno dei filosofi cristiani più significativi dello scorso secolo. Dunque, dobbiamo figurarci un Baudelaire che, all'insegna di una scandalosa e sontuosa trasgressione, esplora le più recondite zone dello spirito per cercarvi la traccia di Dio? E la trova, tutto in apparenza calpestando e profanando, nello sfarzo di una poesia voluttuosa e mortuaria? E lì scava e scava, nella breve fiamma della sua vita (muore nel 1867, a quarantasei anni), tra droghe e deliri, visioni e ossessioni, lussi da dandy e lussurie da depravato, perché «in cima» o «in fondo» c'è, comunque, il disvelarsi del volto di Dio? Sì, Baudelaire è questo: e ogni volta che torniamo a odorare i suoi Fiori ne abbiamo conferma. Ma l'edizione che ci viene adesso proposta offre qualche ulteriore speciale fragranza. Infatti, riproponendo la prima edizione censurata delle «Fleurs», ci chiama all'ascolto della voce «originaria» del poeta, quella che, nel giugno del 1857, a Parigi, stupì per la sua compiuta bellezza e scandalizzò per la sua dichiarata vocazione trasgressiva. Dopo l'omaggio a Théophile Gautier a cui «coi sensi della più profonda umiltà» il poeta dedicava le sue «poesie malfiorite», ci si rivolgeva infatti al lettore in questi termini: «È Satana tre volte grande che culla lungamente/la nostra mente che rimane incantata/sul guanciale del male, e l'oro del nostro volere/lui lo fa volatilizzare, alchimista sapiente». Ma sfuggire alla Noia e all'Orrore della tetra quotidianità, innalzando il vessillo della ribellione libertaria e aristocratica, mettersi in Viaggio nelle più ignote contrade, non disdegnando passione e compassione, e accettando la sfida della Morte per aprirsi alla Luce, significa «solo» rinnegare il Dio dei moralisti e dei borghesi? «Solo» riconoscere a Satana le insegne alchemiche di chi «trasforma» la nostra vita? O soprattutto andare al di là «anche» del Male? E l'approdo «al di là» del Male è la conquista del Bene «vero». È la Poesia. È quella Bellezza che - come scrive giustamente nella prefazione Enzo Bianchi, un altro studioso cristiano attento al «mistero» dell'uomo - «ha il potere di farci perdonare e dimenticare», cosicché «non ci ricordiamo se non tangenzialmente delle depravazioni e dei contorcimenti dell'uomo Baudelaire». Forse perché l'abisso è profondo come il cielo e Baudelaire, per quanto sembri esaltarlo, non si accontenta del destino di «angelo caduto». Questo spiega la «dismisura» della sua poesia, così mirabilmente «architettata». Ricostruendo venture e sventure delle «Fleurs», a partire dall'edizione del 1857, Muschitiello ci ricorda come ci troviamo di fronte al «Libro della sua vita, un beninsieme (un "parfait ensemble" dirà lui) di cento poesie numerate, introdotte da una poesia che si indirizza al lettore. La sua architettura è quasi dantesca, atta a racchiudere una "terribile moralità"». Ma la «terribile moralità» fa paura al «farisaico lettore» («hypocrite lecteur») che, pur non ignorando che dove è Orrore, dove è Tedio, è anche nostalgia di Bellezza, si indigna e grida alla immoralità. Così, una dozzina di giorni dopo la pubblicazione, il libro, accusato di offendere la morale pubblica e il buoncostume, viene sequestrato. E nell'agosto sei poesie sono condannate ad essere espunte dal testo. La censura si è avventata su un'opera costruita «con furia e pazienza» e ha tolto di mezzo «Lesbos», «Femmes damnées», «Le Léthé», «A celle qui est trop gaie», «Les Métamorhoses du vampire»: liriche che negli anni a venire avranno alterne vicende, ricomparendo o di nuovo sparendo, a seconda del luogo dove il libro viene stampato. Tutto, comunque, è raccontato nella sapiente Nota di Muschitiello («I versi ritrovati», con una dedica - «Ai molti che sono pochi,/ai pochi che sono molti» - che pare parafrasare il Nietzsche di «Zarathustra», «Libro per Tutti e per Nessuno»). Ma «come» sono le «poesie proibite»? Voluttuose e lussureggianti, come il loro Autore. «Imperdonabili», direbbe Cristina Campo. Dunque, «da perdonare» perché l'eccellenza riscatta. Ecco alcuni versi di «Lesbos», scritti in anni non sospettabili di «orgoglio gay»: «Lesbo, terra delle calde notti piene di languore (...)/ lascia che il vecchio Platone aggrotti le ciglia austere:/ è l'eccesso stesso dei baci a farti perdonare...». Il perdono che deriva dall'eccesso è, per un «Lucifero in sofferenza» come Baudelaire, anche straordinario paradosso evangelico. «Molto ti sarà perdonato perché molto hai amato», dice il Cristo a Maria Maddalena. E in queste parole che abbracciano accoglie lei e le rimette il peccato, cogliendo nella sovrabbondanza del suo donarsi una grande, espansiva forza d'amore. Mentre allontana i farisei che credono di pareggiare i loro conti con Dio attraverso gli oboli prescritti, la ritualità tutta esteriore, l'osservanza formale della legge. Ben altro chiede quella «morale» cristiana che tante volte appare scandalosa ad «anime belle» che in realtà sono soltanto anime tiepide. «I fiori del male» hanno un profumo che stordisce e quando li tocchi senti che bruciano. Imperdonabile, insopportabile Baudelaire. Aspetterà la redenzione in un purgatorio costruito apposta per lui e tanti altri «maledetti» ansiosi di assoluto. È quel «chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, civettuolo e misterioso», situato «sulla punta estrema della Kamchatka romantica», di cui parla Saint-Beuve e che Roberto Calasso, nel suo dispendio immaginifico, è andato a rivisitare qualche anno fa (cfr. «La Folie Baudelaire», Adelphi, 2008)? Chissà. Forse è proprio lì che con fervore inesausto la poesia, il sogno, l'ebbrezza cercano e ricreano «altri» luoghi. È lì che esplorano «paesaggi» dello spirito da lungo tempo smarriti e si aprono a «visioni» arcane che pure sono il geroglifico dei nostri volti. Baudelaire «è» questa implacabile rivelazione, questo impeto di luce oscura e accecante. Non risparmia nessuno il nostro angelico-diabolico dandy. Non si risparmia. E vaga insonne, di fiore in fiore. In alcune poesie sembra che bestemmi, in altre lo vedi immerso in mistici trasalimenti. Fa paura perché non ha paura di dirci chi è, chi siamo e cosa potremmo essere.

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