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di Dario Salvatori Classifiche, che passione! Per gli inglesi si tratta di una autentica mania: disporre in verticale tutto ciò che interessa un pubblico vasto, magari poco propenso a leggere un saggio o un articolo di fondo.

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Lamusica gioca un ruolo importante, proprio in un momento in cui le hit parade attraversano un momento di grande confusione e scarsa considerazione. In Inghilterra ci sono almeno quattro riviste che ogni mese mettono in classifica qualcosa: «Mojo», «Q», «Record collector», «In Cut». L'ultima compilazione è stata stilata dalla Official Charts Company e riguarda gli album più venduti in Inghilterra durante l'ultimo mezzo secolo. Al primo posto compaiono i Queen con il loro «Greatest hits», pubblicato nel 1981, che ha venduto in totale 5,8 milioni di copie, seguito da «Sgt Pepper's lonely hearts Club Band» dei Beatles, pubblicato nel 1967 (cinque milioni di copie). Il podio è completato dagli Abba, con il loro «Gold» (4,9 milioni). Una classifica un po' retorica, che farà discutere, opinabile come tutte le classifiche. Intanto ci sembra strano che compaiano nella stessa hit album originali e compilation, ovvero antologie, «il meglio di», pubblicazioni che nelle classifiche più accorte vengono ospitate in una hit a parte, destinata alle compilation. Si tratta di prodotti discografici molto lontani, messi sul mercato a prezzi diversi, promossi da canali particolari (autogrill, mail, negozi specializzati, grande distribuzione, ecc.), di fatto assolutamente non paragonabili. L'altra leggerezza riguarda il mercato. Stilare un elenco degli album più venduti nell'ultimo mezzo secolo significa far partire l'indagine dal 1962, ovvero in un periodo in cui a dominare il mercato era il microsolco di piccolo formato, ovvero i singoli, i 45 giri, non certo i 33, i long playing, come si chiamavano allora, riservati per tutti gli anni Sessanta ad un pubblico specialistico, una piccola quota di mercato. Una evidente trascuratezza che non ha permesso l'ingresso nei primi quaranta di artisti quali Rolling Stones, Bee Gees, Tom Jones, Elton John, Cliff Richard (solo per rimanere agli inglesi) che in realtà hanno venduto milioni di pezzi ma fino a quel momento prevalentemente nel piccolo formato. Scorrendo le prime posizioni troviamo gli Oasis al quarto posto con «What's the story», seguito da «Thriller» di Michael Jackson al quinto, Adele al sesto con l'album d'esordio «21». Affiora in tutte le posizioni lo sciovinismo inglese, il concetto «english the best» che sembra non abbandonare mai i britannici, anche se è pur vero - ma non più - che per lungo tempo era il mercato inglese a dettare leggere nel music business. Non a caso al settimo e all'ottavo posto figurano band made in England, i Dire Straits con «Brothers in arms» e i Pink Floyd con «The dark side of the moon», disco del 1973 e che nelle compilazioni internazionali, ovvero quelle che tengono conto delle copie vendute negli Stati Uniti e nel resto del mondo, è da sempre al n.1 in classifiche del genere grazie ai suoi 35 milioni di esemplari venduti. Ecco «Bad» di Michael Jackson al nono posto e ancora i Queen al decimo con un'altra antologia, «Greatest hits II», pubblicata nel 1991 che fino ad oggi ha raggiunto l'invidiabile quota di 3,8 milioni di copie. Scorrendo le posizioni, scopriamo che c'è posto (ma forse non gloria), anche per qualche esponente dei talent show inglesi, per esempio la pompatissima Leona Lewis, al ventesimo posto con «Spirit». In sostanza l'Official Charts Company propone una classifica che ha il vago sapore della restaurazione, nazionalistica e un po' conservatrice, ma che permette di ricordare, se ce ne fossimo dimenticati, di straripanti successi, di ottime canzoni, in qualche caso di autentici capolavori. Un'occhiata a questa classifica mette a nudo anche l'attuale fragilità dell'industria discografica, o meglio quello che è rimasto della stessa. Con l'avvento della cosiddetta «musica liquida» (ovvero internet, mp3, scarico legale o illegale, comprese contraffazioni varie) nessuno raggiungerà mai più record di vendita di questo genere e questo non può che immalinconire. Già, perché simili vendite permettevano ai grandi gruppi discografici di realizzare profitti spaventosi e a musicisti, interpreti, autori e produttori di accumulare ricchezze con cui vivranno svariate generazioni (basterebbe notare l'alta percentuale di artisti defunti nei primi quaranta) ma forse anche di reinvestire notevoli capitali, puntare sui giovani e sulla sperimentazione. In una parola rischiare. Magari per evitare osmosi e omologazione, i grandi nemici della creatività. Ecco, tutto questo è sparito, non è più contemplato, già solo parlarne suona come una provocazione. Però ci rimangono queste cifre, i dischi, le pareti delle nostre case, in qualche caso addirittura la passione.

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