di Mario Bernardi Guardi «Sono una vecchia pellaccia: anche quando creperò, non mancherò di venire a far visita ad amici e nemici», si dice che fosse solito ripetere Ernest Hemingway a chi veniva a rendergli omaggio a Ketchum, Idaho, negli ul
Unmito incarnato in un uomo che non avrebbe mai voluto diventare vecchio e continuava sempre più stanco a fare a cazzotti con questa maledizione. Straripava di vita, Hem. Una incontinenza naturale dove c'era stato posto per tutto: sesso e sangue, guerre e rivoluzioni, safari e corride. E così uno scialo di immagini palpitanti era stata anche l'esperienza del viaggiatore, di quest'americano allo stato brado: l'Italia, Parigi, l'Africa, la Spagna, Cuba… Ma forse Venezia era stata davvero per lui una scoperta speciale, di quelle che hanno il sapore dell'occasione-appuntamento. Come rivelano le quindici lettere, dodici delle quali inedite, che scrisse al suo amico veneziano, il conte Gianfranco Ivancich, e che sono state acquistate dalla John F. Kennedy Presidential Library and Museum di Boston.. Cerchiamo di "vederli", Ernest e Gianfranco, al loro primo incontro, in un bar di Venezia, nel gennaio del 1949. Ernest, cinquantenne, ha sulle spalle due guerre che ha vissuto con grande partecipazione emotiva, facendosi carico della loro disumanità ma anche di quanto da esse può procedere in termine di crescita interiore e di slancio solidale. Pur in mezzo agli "eroici furori" scatenati dalle contrapposte passioni: e lui alla logica della violenza "giustiziera" non si è mai sottratto. Gianfranco ha fatto la Resistenza, militando nella Brigata Osoppo, quella degli "azzurri", dei cattolici, degli anticomunisti dove combatterono anche Francesco De Gregori, zio dell'omonimo cantautore, e Guido Pasolini, fratello dello scrittore Pier Paolo. Insomma, quella che a Porzus, fu in gran parte decimata dai "rossi" della "Garibaldi". Si incontrano, simpatizzano. Ne hanno di cicatrici addosso. L'incanto di Venezia è un medicamento portentoso. Ma il sodalizio di Ernest col Veneto è antico. Risale alla Grande Guerra. Ricordi che non si cancellano. Ernest è autista nei Servizi di Ambulanza della Croce Rossa Americana, viene assegnato al fronte italiano, si trova in un turbine di fuoco a Fossalta di Piave, e qui resta ferito gravemente nel luglio del 1918. E, come è noto, la lotta con la morte e l'amore per la sua infermiera vengono trasfigurati letterariamente in "Addio alle armi" (1929). Un'altra creazione letteraria sarebbe stata favorita proprio dall'incontro con Gianfranco Ivancich e con sua sorella Adriana. Lei, quando conobbe Mr. Papa, aveva diciotto anni. Quasi inevitabile che diventasse la Musa dello scrittore, eternamente in cerca della bellezza ideale, al pari di tutti quelli che vanno con foga all'assalto della realtà. Musa e basta? Ci fu una relazione d'amore? Fu solo platonica? Di sicuro, tra il 1950 e il 1951, Adriana fu ospite di Hemingway a Cuba. Così come è incontestabile che il romanzo uscito in quel periodo, "Di là dal fiume e tra gli alberi" - Adriana ne disegnò la copertina - ha dietro di sé la fascinazione di un incontro che divenne "corrispondenza d'amorosi sensi". Bella e impossibile. Adriana (sarà lei stessa a darne conferma in "La torre bianca", Mondadori, 1980) "è" Renata, la aristocratica giovane veneziana di cui si innamora il cinquantenne colonnello Richard Cantwell che le racconta le sue vicende di guerra, sapendo di avere un'attenta ascoltatrice. E vivendo con lei momenti di intensa complicità e di profondo trasporto affettivo. Senza domani, perché lui è ammalato di cuore e non gli resta molto tempo da vivere. In ogni caso, si sceglierà il posto dove morire: nello stesso luogo che lo aveva visto giovane, investito da mille schegge, nella sanguinosa fornace della guerra. "Di là dal fiume e tra gli alberi" è dunque un omaggio all'Italia, a Venezia, alla laguna di Caorle, ad un mondo carezzato con insolita malinconia da un mai sazio cantore della vitalità. Un atto di amore, dicevamo, e una testimonianza di amicizia profonda, visto che, prima di dare alle stampe il suo romanzo, lo scrittore volle coinvolgere anche Gianfranco (che ha rievocato il vincolo amicale in "I miei giorni con Ernest Hemingway", Edizioni della Laguna, 2008), leggendogli le bozze, per dare agli ambienti descritti il massimo di credibilità. Anche se lo yankee Mr. Papa ci teneva ad esaltare la sua "italianità", dicendo di sé: «Sono un ragazzo del Basso Piave» e confidando al critico d'arte Bernard Berenson, che lo aveva invitato a Firenze: «Sono un vecchio fanatico del Veneto». Uno che cercava i luoghi che lo avevano visto vivere, dunque esporsi alla morte, in un momento in cui ne avvertiva il fiato sul collo. Ma in un modo diverso. Allora era un giovane leone, adesso era diventato vecchio e si sentiva stanco. Tuttavia continuava a ribellarsi e il Veneto e Venezia non erano solo elegia, e cioè l'archivio della memoria rivisitata, gli ultimi amori, il luogo dove avrebbe voluto morire nell'incanto lagunare o a Fossalta, sull'argine del Piave, ma erano anche i curiosi vagabondaggi per le calli, le passeggiate al Mercato del pesce, le osterie, il baccalà alla veneta, il Valpolicella, definito un vino «cordiale come un fratello con cui si va d'accordo», l'Hotel Gritti, dove alloggia insieme alla moglie Mary e dove scopre lo squisito risotto agli scampi e il "dry Martini", preparatogli da Giuseppe Cipriani all'Harry's Bar. Insomma, una provvista di pienezza, solida, concreta, sanguigna, prima del salto nell'eternità o nel vuoto. Stile Hemingway, ragazzi…