di Lidia Lombardi Quel pomeriggio di giugno, al tramonto, sul terrazzo di casa Bellonci, quando tra tartine e prosecco si quaglia ogni anno la cinquina del Premio Strega, ha visto sempre seduto, nell'angolo col refolo, il poeta Elio Pagliaran
Uomofranco e giusto. Poco parlare e molto osservare. Con accanto l'inseparabile moglie, Cetta Petrollo, raffinata ed effervescente direttrice di biblioteche, da quella Alessandrina alla Vallicelliana. Pagliarani, morto ieri in una clinica di Roma a 84 anni, aveva l'aspetto mite però dentro covava gli ardori della sua Romagna (era nato a Viserba) che, figlio d'operai, aveva lasciato da giovane. Ma dopo la laurea in scienze politiche a Padova e pochi anni a Milano, a insegnare e a scrivere su riviste, Roma diventa la meta finale. E lui - la faccia tonda, il fiocco da anarchico, la pipa - si plasma sulla capitale e ne è plasmato. Abita prima a via Margutta, disponendo di un terrazzo fiorito, poi dagli anni Novanta in via degli Ammiragli, dove s'alzano i collinotti che fanno da contrafforte a Monte Mario. Ad animare riviste, riunioni letterarie, incontri di intellettuali ha continuato sempre. Un poeta a spasso in città, altro che nella torre d'avorio. Attitudine propiziata dal lavoro di giornalista culturale all'Avanti! E poi nell'altro giornale rosso e popolarissimo, Paese Sera, stavolta nel ruolo di critico teatrale. A comporre comincia negli anni Cinquanta. Ci sono personaggi veri, periferie urbane nelle sue raccolte. La vita, insomma, vista nel pulsare del proletariato, nel disincanto di un'Italia uscita arrancando dalla guerra, alla ricerca spesso deludente di valori. Fa sperimentalismo, Pagliariani. È tra i cinque del Gruppo '63 (con Sanguineti, Balestrini, Giuliani e Porta), i suoi versi compaiono nell'antologia «I novissimi». Ma Walter Pedullà, il decano degli italianisti, il grande amico (si conobbero nelle stanze dell'Avanti!, ha firmato la prefazione all'autobiografia «Memorie» edita da Marsilio e ieri è stato lui a dare notizia della morte) spiega com'era lo sperimentalismo di Pagliarani: «Nel Gruppo '63 non dava l'apporto teorico, ma il vigore dei versi. Insomma, se è vero come spesso è vero che l'avanguardia non produce poeti, ecco, Pagliarani è l'eccezione che conferma la regola. In lui non c'è freddezza. La corporalità convive con una razionalità molto risentita, e funzionano insieme. Vuole un esempio della sintonia con il pubblico? In un mondo di lettori nel quale la poesia non sfonda quasi mai, Pagliarani viene definito come "quello della Ragazza Carla", dal titolo del suo lavoro per antonomasia». Ed eccolo, nell'incipit, questo ritratto di diciassettenne che vive con la mamma vedova nella periferia milanese e frequenta le scuole serali, cominciato dal poeta negli anni Cinquanta e consegnato definitivamente alla rivista «Menabò» nel 1960: «Di là dal ponte della ferrovia/ una trasversa di viale Ripamonti/ c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina./ Il ponte sta lì buono e sotto passano/ treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli/ e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che cammina/ i camion della frutta di Romagna...». Pedullà, che inserisce Pagliarani tra i grandi poeti del secondo Novecento, «quelli di cui resterà memoria insieme con Pasolini, Zanzotto, la Rosselli, Caproni», ne sottolinea un altro talento; «Era un gran lettore dei suoi versi. Esaltava quella poesia ritmica, fatta di spezzature, degli scatti di indignazione del moralista. E conosceva il connubio tra il tono patetico e quello drammatico, tra risentimento e ironia. Insomma, non soltanto belle poesie, capaci di aggregare tutti i lettori, ma dette bene». E l'uomo, com'era? «Esce fuori preciso dall'autobiografia dedicata alla figlia Lia Rosa, avuta a quarant'anni. Di sé non inventa una vita migliore. Invece la racconta com'è, con i capricci, i vizi, la passione per il gioco. Insomma, nega qualsiasi tono declamatorio e fa il contrario rispetto alla costruzione di un personaggio grandioso. Pareva burbero, ondeggiava tra improvvise chiusure ed aperture. Ma poi era buonissimo, estroverso, generoso». Il fatto è che questo vulcanico collaboratore di tutte le riviste d'avanguardia del secondo dopoguerra, da «Il Verri» a «Nuovi Argomenti», da «Officina» a «Nuova Corrente», non riusciva a sottrarsi dall'ispirazione legata al mondo operaio, alla vita delle classi subalterne. Ne escono opere corali, che raccontano saghe familiari, vite sciorinate nell'arco di anni. Come nel secondo romanzo in versi, «La ballata di Rudi» (il protagonista è un animatore di balli sull'Adriatico che nel dopoguerra si ricicla come lenone in un night club di Milano). Socialista riformista, fan del conterraneo Pietro Nenni, guardava qui all'Italia amorale del boom con un pizzico di ottimismo. «Ma dobbiamo continuare/ come se/ non avesse senso pensare / che s'appassisca il mare». «Invece negli ultimi anni era indignato di come era finita la politica - racconta ancora Pedullà - e deluso nella speranza di vedere un'epoca che producesse qualcosa di più apprezzabile». Meglio i sentimenti, in parole d'amore dove sperimenta il verso a scaletta. E dove palpitano scorci metropolitani: «Sarà ora di chiudere, amore/ che smetta di fare la guardia al cemento/ tra piazza Tricolore e via Bellini/ di coprirmi la faccia col giornale/ quando ferma la E, di attraversare/ obliquo la tua strada, di patire/ anche a passarci in treno/ in fondo a viale Argonne/ vicino alla tua casa».