di Francesco Damato Una recensione d'eccezione, scritta da Giorgio Napolitano e pubblicata il 4 ottobre scorso dal "Corriere della Sera", ha ravvivato una biografia del compianto Mino Martinazzoli un po' dimenticata, sfuggita due anni fa, quando ar
Ilpresidente ha "ritrovato" nel libro di Martinazzoli- «Uno strano democristiano» (Rizzoli, pag. 180, euro 17,50) «una figura singolare e rilevante di protagonista della vita pubblica italiana», apprezzandone in particolare la concezione «mite» e la consapevolezza del «limite» della politica. Napolitano, del resto, ha provato nella sua lunga militanza comunista gli inconvenienti di una politica dura e invasiva, com'era abitualmente quella del suo vecchio partito. La mitezza è una parola ricorrente nel libro di Martinazzoli. Miti erano sempre i suoi ragionamenti, ripetuti nella biografia con le «spigolature» raccolte dalla giornalista Annachiara Valle. Non ricordo di averlo mai sentito gridare o compiere gesti di insofferenza. Le sue battute, spesso farcite di citazioni letterarie, non erano mai ineleganti. L'unica della quale nel libro egli dichiara di essersi pentito, avendola trovata «sciocca» e quasi scusandosene in ritardo con l'allora capo dello Stato Francesco Cossiga, è quella con la quale commentò la propria nomina a ministro nell'ultimo governo presieduto da Giulio Andreotti. Era la primavera del 1991. «Ebbi a dire -racconta Martinazzoli- che, siccome avevano deciso che non avrebbero fatto riforme istituzionali, mi avevano fatto ministro delle Riforme». «Ma fu vero -aggiunge tuttavia con sarcasmo- che quella fu un'esperienza, tutto sommato, molto sterile». Il fatto è che Cossiga alla riforma della Costituzione pensava e teneva davvero, tanto da sottolinearne l'utilità e l'urgenza, pochi mesi dopo la nomina di Martinazzoli, con un messaggio alle Camere che spaventò a sinistra i tanti conservatori travestiti da progressisti. A quel messaggio, che Andreotti non volle controfirmare, lasciando che a farlo fosse l'allora ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli, contribuì non poco proprio Martinazzoli. Che stranamente omette di parlarne nella sua biografia. Questa tuttavia non è la sola omissione nel libro dell'ultimo segretario della Dc. Ce ne sono altre, forse dettate dalla ritrosia di Martinazzoli ad apparire protagonista più di tanto, che trovo opportuno disvelare per dare più compiutamente l'idea di ciò che egli fu nel suo partito: un curioso impasto di mite e di duro. Demitiano di corrente, Martinazzoli fu l'unico, o quasi, della sinistra democristiana a non vivere con sofferenza, come un passaggio odiosamente imposto dalle circostanze, i quattro anni di governo guidato da Bettino Craxi, con il quale ebbe rapporti "ottimi", come lui stesso racconta nel libro. De Mita invece, segretario allora del partito, ne era ossessionato e non vedeva l'ora di liberarsene. Contro questa ossessione Martinazzoli sbottò in un convegno di corrente a Chianciano. De Mita non gradì. E all'indomani delle elezioni anticipate del 1987 gli preferì Giovanni Goria come presidente del Consiglio, per quanto Martinazzoli l'anno prima non avesse voluto partecipare al secondo governo Craxi, dopo esserne stato nel primo il ministro della Giustizia gestendo vicende assai delicate: per esempio, l'aspetto giudiziario del sequestro terroristico della nave Achille Lauro. Diventato segretario della Dc nell'autunno del 1992, succedendo ad Arnaldo Forlani in una stagione politica a dir poco convulsa, con le forze di governo e lo stesso governo decimati dagli avvisi di garanzia delle Procure che indagavano sul finanziamento illegale dei partiti, Martinazzoli contribuì nella primavera successiva all'avvicendamento a Palazzo Chigi fra Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, di cui condivise la decisione di imbarcare nel governo il Pds-ex Pci di Achille Occhetto. I cui ministri però si dimisero per protesta, prima ancora della fiducia, contro il diniego opposto dalla Camera, a scrutinio segreto, ad alcune delle autorizzazioni a procedere contro Craxi avanzate dalle Procure di Milano e di Roma. Proprio in vista delle votazioni su Craxi fu chiesto a Martinazzoli da Occhetto un incontro, che si svolse nell'ufficio del capogruppo democristiano alla Camera Gerardo Bianco. Occhetto, accompagnato da Massimo D'Alema, chiese come atto emblematico svolta rappresentata dal nuovo governo che i democristiani votassero contro l'ormai ex segretario socialista. Martinazzoli, seccato, rispose che i suoi deputati avrebbero votato, come sempre, secondo coscienza. E molti votarono a favore di Craxi, incoraggiati da un discorso del capogruppo rispettoso del protagonista della ritrovata alleanza del Psi con lo scudo crociato dopo l'interruzione voluta dal suo predecessore Francesco De Martino. Mancava allora meno di un anno -pensate un po'- alle elezioni anticipate del 1994. Che avrebbero segnato la sorprendente vittoria di Silvio Berlusconi sia su Occhetto sia su Martinazzoli: il primo a capo di una sinistra falsamente «progressista» e il secondo alla guida di ciò che rimaneva di una Dc solitaria sotto il nome di Partito Popolare. Invitato dal Cavaliere a partecipare ad un'alleanza di centrodestra, in un incontro ad Arcore, egli gli aveva risposto no. «Fu un colloquio civile, ma non potevamo che essere due reciproci sconosciuti», racconta Martinazzoli nella sua biografia.