di MARIO BERNARDI GUARDI «Viaggio al termine di un'altra notte» potrebbe essere il sottotitolo di «Privati abissi» (Fazi), il romanzo con cui Gianfranco Calligarich è meritatamente entrato tra i finalisti del «Premio Viareggio» (il 27 agosto, l'inc
Ea partire dall'«incipit». Ecco quello del «Voyage au bout de la nuit»: «È cominciato così. Io, io non avevo proprio detto nulla. Nulla. È stato Arturo Granata a farmi parlare. Arturo, uno studente in medicina anche lui, un amico. Ci si incontra dunque in Place Clichè. S'era dopo pranzo. Vuole parlarmi. L'ascolto. «Non stiamo fuori - mi dice - entriamo in un caffè. Entro con lui. Ecco. "Fuori, sulla terrazza", mi dice - fa troppo caldo. Per di qua». Ecco «Privati abissi»: «Allora. Sarà forse il caso di dire perché ripensarla, questa storia. Bene, diciamo che la cosa si deve al lungo disagevole viaggio fatto in macchina nella Capitale. Per dare il mio estremo arrivederci al vecchio Santandrea. Steso per scaduti termini di età nel suo cappotto di legno. All'ombra degli alberi pizzuti». Ritmo concitato. Ammicchi al lettore perché diventi subito complice. Il lessico della quotidianità. Rapido, immediato. Con qualcosa che dentro si spezza, quasi che nella voce ci fosse una sorta di affanno. Ma l'«abisso» di Calligarich ci ha fatto pensare alla «notte» di Céline anche per un altro motivo. Il vorticoso viluppo della memoria che si dipana. Risali, ritrovi il tempo che non è mai perduto e che, sequenza dopo sequenza, si svolge, si libera. Sulla scena, storie intime, di un privato che scotta, e che vengono rese pubbliche. Scialo di segreti. Notturni, abissali. Ma il «Voyage» è del 1932 e Céline si arrampicava su memorie di guerra, sciorinando sulla pubblica piazza una incandescente, disumana umanità. D'accordo, ma anche Calligarich nel 2011 racconta una «guerra». Perché la si può combattere in tanti «modi» e in tanti «tempi». Quanto ai campi di battaglia, poi...Che ne dite di Roma, tra i Sessanta e i Settanta, quando la vita da dolce era diventata dolce-amara, ma pure, tra vortici e abissi, valeva comunque la disfida dell'esistere? Calligarich ne raccontò un pezzo - che è come dire un pezzo del suo cuore - in «L'ultima estate in città», che, presentato da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, vinse il Premio Inedito nel 1973 e che l'anno scorso è stato riproposto da Aragno, tra gli entusiasmi della critica. Ecco, adesso, un altro po' di Roma. Sfatta e trionfale, tra i «tavoli perdutamente verdi» di un «locale per bere» dove, tra «anime belle», brutte e chissà, si affollano stravaganze e inquietudini, vite vendute, perdute, ritrovate e perdute un'altra volta, e, naturalmente, giocatori di tutti i tipi. Gente che azzarda, altrimenti che si vive a fare?, ma poi come ci rimani male, quasi ti scoppia il cuore se le carte ti tradiscono. È chiaro: possono, quasi «debbono» tradire, perché «fa parte del gioco» e si sa che al vero giocatore nemmeno fa piacere vincere sempre. Però, c'è un modo di «perdere» così imprevedibile che ti spiazza e ti strapazza. Capita quando ci si mette di mezzo l'«oscura faccenda chiamata amore» di cui «niente a volte può essere più scardinante». Capita se incontri una donna che ti incanta o ti strega, come preferisci. Una che non solo è bella ma sprigiona un fascino carico di mistero. Di segreti inconfessabili. Di meravigliose promesse. Tradite, però. Infatti, lei che prima ti aveva incendiato i sensi e poi ti aveva fatto esplicitamente capire che voleva diventare la tua donna e lo era diventata sposandoti, non va al di là di abbracci e baci, come se qualcosa, nel momento conclusivo, la bloccasse. Cosa? Quali nodi inestricabili? Quale storia? Il racconto - con la scoperta di una verità atroce e davvero inattesa - è affidato a un vecchio giocatore d'azzardo che vive in Riviera ed evoca, appunto, gli anni di Roma, con quella stranissima coppia subito «scoppiata». Un uomo, una donna e un amore impossibile, sullo sfondo di una Capitale dove tutto era possibile. Calligarich, nato all'Asmara da famiglia triestina, giornalista, sceneggiatore, uomo di teatro, collaboratore della RAI, probabilmente ha nostalgia di quegli anni sovraccarichi di vita, «abissi» compresi. Quanta estenuata, terribile dolcezza in quegli inferni!