La storia, o forse la leggenda, narra che nell'83 d.C., rientrando a Roma dalla Britannia di cui era stato governatore, Agricola avesse portato con sé tre mastri birrai di Glevum (l'attuale Gloucester) dando vita al primo «pub» della Penisola
Glistudiosi si indigneranno, ma l'aneddotto testimonia che Italia non vuole dire solo vino. All'inizio del 1900 le fabbriche di birra erano circa 150. Poi la flessione, la quasi totale scomparsa e, oggi, il ritorno. Negli ultimi anni ha preso piede, con sempre maggiore vigore, il fenomeno dei birrifici artigianali made in Italy. Piccole e medie realtà, nate dalla passione dei loro proprietari per malto e luppolo, che rappresentano i veri laboratori alchemici del terzo millennio. «Su tutto il territorio nazionale si contano oggi quasi 400 realtà» spiega Fabiano Toffoli, agronomo e responsabile della produzione del birrificio 32 via dei birrai di Pederobba in provincia di Treviso (www.32viadeibirrai.com). Toffoli è italo-belga, un «mix genetico» perfetto per uno che si occupa di birra. «Le persone - prosegue - hanno cominciato a viaggiare, ad apprezzare le birre estere e ad aver voglia di tornare a produrla qui da noi. Oggi il made in Italy, anche in questo settore, è molto apprezzato. Perché unisce creatività e qualità». In effetti guardando la produzione del birrificio veneto, ecco spuntare tra le altre, la Nectar, ottenuta con il miele di castagne del Monte Grappa. Una voglia di creare che è forse il vero tratto distintivo di questi birrifici, ma anche l'occasione per legare il prodotto al territorio, visto che gran parte delle materie prime proviene dall'estero. Maltare in Italia, infatti, è molto costoso, mentre le produzioni di luppolo sono solo all'inizio. Ma l'estero è anche il mercato più interessante per questi artigiani. Come racconta Alfredo Colangelo della Birra del Borgo (birradelborgo.it), una delle «chiocce», assieme a Baladin (www.baladin.it), dei produttori italiani: «Quando Leonardo De Vincenzo, dopo gli studi in biologia, ha dato vita al birrificio sei anni fa a Borgorose (Rieti), eravamo nel Medioevo della birra made in Italy. La diffidenza era molta, nessuno ci avrebbe scommesso». Oggi producono 5000 ettolitri, hanno locali in cui vendono i propri prodotti e quelli degli altri artigiani tricolore, il 2 giugno inaugureranno una Birreria (questo il nome) a New York, e si godono l'attenzione di Stati Uniti e Giappone: «Vanno pazzi per la nostra Genziana e per My Antonia che, tra l'altro, nasce dalla collaborazione con Sam Calagione, uno dei più noti birrai americani. Recentemente ci ha anche contattati un importatore tedesco». I maestri copiano gli ultimi arrivati? «Noi non abbiamo i vicoli della tradizione - spiega Bruno Carilli, proprietario di Toccalmatto, birrificio di Fidenza (www.birratoccalmatto.it) - e siamo più liberi di sperimentare». Carilli ha un passato da manager in aziende multinazionali tra cui figura anche la ex Birra Poretti oggi Carlsberg Italia. Dopo 10 anni di produzione casalinga, ha deciso di mettersi in proprio. La sua Re Hop è stata recentemente premiata da Slow Food: «Qualcuno forse ne abusa, ma il nostro segreto è sicuramente la creatività». Lo sa bene Claudio Cerullo, nato chimico e oggi numero uno di Birra Amiata (ad Arcidosso in provincia di Grosseto www.birra-amiata.it). Lui la produce con castagne, miele di marruche e persino zafferano: «Il mondo della birra ha svecchiato i suoi gusti. Non è un caso che l'Italia abbia vinto il Mondiale della birre per due volte. È stata premiata la creatività. Se si vuole un prodotto non canonico la risposta è il made in Italy». Unica nota stonata i costi. I microbirrifici, nonostante le dimensioni ridotte, hanno gli stessi oneri burocratici delle grandi aziende. I costi strutturali e l'accisa sulla birra sono molti alti. L'Italia si distingue anche in questo.