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di CARLO DE BENEDETTI Rileggere oggi, immersi come siamo in una profonda crisi finanziaria ed economica, ma anche (soprattutto?) morale, la settecentesca Favola delle api, suscita un duplice sentimento: da un lato di lontananza, dall'altro di vicin

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D'altrocanto, è un libro di una attualità assoluta. Tratta infatti di alcuni dei temi che sono al centro del nostro dibattito: qual è il fondamento della socialità e della società moderna? qual è l'origine della ricchezza? come rendere una nazione più ricca e felice? come sviluppare i commerci e trattare con gli altri paesi concorrenti? come evitare le crisi? Insomma, le questioni dello sviluppo e della crescita di una società economicamente avanzata, le stesse questioni su cui noi ci arrovelliamo da anni, senza avere ancora trovato le risposte e le soluzioni più adeguate. Ma vediamo subito la tesi centrale di Mandeville (1660-1734) - questo grande medico economista, specialista in malattie nervose (oggi lo considereremmo un neuropsichiatra), nato ed educato in Olanda, ma vissuto poi sempre in Inghilterra, a Londra - e proprio come lui stesso la espone, nelle prime pagine della Favola. In breve, Mandeville ci racconta che le api, che una volta vivevano nel vizio e nel peccato, conquistate dalla virtù, presero a condurre una vita onesta e sobria, evitando sprechi e lussi. Il risultato fu che caddero in una terribile crisi. Nel loro stato primitivo (e fiorente), ...ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso. ... La radice del male, l'avarizia, pessimo, dannato, pestifero vizio, era schiava della prodigalità, nobile peccato, mentre il lusso dava da vivere a un milione di poveri e l'odiosa superbia a un altro milione. perfino l'invidia e la vanità favorivano l'industria. La loro più cara follia, la volubilità nel vestire, nei cibi e negli arredamenti, questo strano e ridicolo vizio, era ormai proprio la ruota che muoveva il commercio. ... Così il vizio nutriva l'ingegnosità, che insieme con il tempo e con l'industria aveva portato le comodità della vita, i suoi reali piaceri, agi e conforti, a una tale altezza, che i più poveri vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi; e nulla si sarebbe potuto aggiungere. Poi, però, le api, persuase dai moralisti, decisero di divenire virtuose: E mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono abbandonate. Non ci sono più mercanti, e intere fabbriche vengono chiuse. Tutte le arti e i mestieri sono negletti: l'accontentarsi del proprio stato, rovina dell'industria, le induce ad apprezzare i prodotti del paese e a non cercare né desiderare altro. La tesi è apparentemente semplice e chiara, per quanto paradossale. In una società commerciale, ovvero moderna, la ricchezza e lo sviluppo economico si fondano sui vizi e sulle passioni moralmente peggiori: i vizi privati sono la causa dei pubblici benefici, esattamente come recita il sottotitolo della Favola. Di qui, tutta una serie di importanti corollari. Per esempio: “Là dove la proprietà è sufficientemente difesa, sarebbe più facile vivere senza denaro che senza poveri, giacché chi farebbe il lavoro? E allo stesso modo che i lavoratori devono essere protetti contro la morte per fame, essi non dovrebbero ricevere nulla che possa essere risparmiato”. Oppure: “in una nazione libera, in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi. Per rendere felice la società (composta naturalmente di coloro che non lavorano) e per rendere il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera. Le cognizioni aumentano e moltiplicano i nostri desideri, e quanto meno un uomo desidera, tanto più facilmente i suoi bisogni potranno essere soddisfatti”. Infine, possiamo citare tutto il Saggio, che costituisce parte di questo volume, “sulla carità e sulle Scuole di Carità”, istituzioni da Mandeville aspramente criticate: la carità rende oziosi e turbolenti, il lavoro invece sobri e virtuosi. Tesi e corollari che non passarono inosservate. Il libro ebbe subito un successo straordinario, e fu subito scandalo e polemica. Mandeville fu accusato di ogni licenziosità, attaccato persino nel suo nome (che, in inglese, significa in effetti “l'uomo del diavolo”), la Favola fu messa dalla Chiesa cattolica all'Indice (e per sempre vi resterà, come testimonia l'ultima edizione dell'Index Librorum Prohibitorum del 1948). Contro Mandeville e il suo pensiero fiorirono libri e libelli, come l'Alcifrone (1732) del celebre filosofo Berkeley (a cui Mandeville rispose nello stesso anno con la sua splendida Lettera a Dione). Mandeville fu persino portato in tribunale: nell'ultimo scritto contenuto in questo volume, è riportata la difesa da parte dell'autore stesso della Favola, intitolata, per l'appunto, “Difesa del libro contro le calunnie contenute in una dichiarazione di reato della giuria d'accusa del Middlesex e in una ingiuriosa lettera a Lord C.”. Insieme al Principe di Machiavelli e al Leviatano di Hobbes, la Favola di Mandeville divenne uno dei testi fondamentali del pensiero filosofico, politico, ed economico del Settecento e quindi dell'Illuminismo e oltre. Non c'è grande pensatore, da Hume a Smith, da J.J.Rousseau a Marx, da Kant a Helvétius, che non lo abbia considerato attentamente. In questa breve presentazione, ci limitiamo a toccare soltanto un punto, o meglio un problema, che ci pare tuttavia fondamentale, e proprio anche alla luce dell'attuale situazione economica e culturale. Muovendo dal rapporto tra Smith e Mandeville, lo possiamo mettere nei seguenti termini. Si è sostenuto autorevolmente che Smith, con la sua celeberrima metafora della “mano invisibile” (che poi sarebbe la mano divina), sviluppi in modo coerente e positivo l'idea di Mandeville, l'idea cioè che dal perseguimento delle passioni e degli interessi privati di individui in concorrenza gli uni con gli altri derivi non il caos, non un hobbesiano bellum omnium contra omnes, ma bensì una società prospera e ordinata, un equilibrio economico e sociale generale. In questo modo, il paradosso di Mandeville - che dal male derivi il bene - verrebbe felicemente risolto. In verità, Adam Smith perviene a tale risultato solo in conseguenza di una critica a Mandeville. Nella sua Teoria dei sentimenti morali, dove esamina a lungo il “sistema licenzioso” di Mandeville, Adam Smith accusa infatti esplicitamente il medico-economista anglo-olandese di aver commesso “il grande errore di rappresentare ogni passione come totalmente viziosa. E' così che egli tratta come vanità ogni cosa che abbia un qualunque riferimento sia a ciò che sono, sia a ciò che dovrebbero essere i sentimenti degli altri; ed è attraverso tale sofisma che il Dr. Mandeville introduce la sua conclusione preferita, che i vizi privati sono pubblici benefici”. In altre parole, mentre a Mandeville gli individui in concorrenza tra loro appaiono generalmente intenti a ingannarsi vicendevolmente, utilizzando le peggiori inclinazioni umane, secondo Smith gli individui concorrono, seppur inconsapevolmente e involontariamente, alla promozione del benessere generale: perseguono sì i propri fini particolari, ma questi non sono necessariamente negativi e disprezzabili. La società non nasce dunque dal vizio. E' questo passaggio capitale che permette a Smith di ‘risolvere' il paradosso di Mandeville. Con l'intervento nell'ordine sociale della Provvidenza divina, etica ed economia non confliggono necessariamente più, e viene aperta la strada a una teoria dell'armonia tra gli interessi di tutti: la concorrenza perfetta comporta sempre e necessariamente la massima felicità per il più grande numero possibile di persone; la società mercantile raggiunge sempre e necessariamente la massima efficienza possibile. In verità, e a differenza della stragrande maggioranza dei suoi seguaci, di allora come di oggi, ad Adam Smith qualche dubbio rimase (ed è un segno della sua grandezza di pensatore): “per quanto un tal sistema (quello appunto di Mandeville) appaia distruttivo, mai si sarebbe imposto a un numero così grande di persone, né avrebbe procurato un così generale senso di allarme tra coloro che sono amici dei migliori principi, se non avesse sotto qualche rispetto sfiorato il vero”. Il merito straordinario di Mandeville è di avere analizzato gli uomini e le donne, in una società moderna e commerciale (noi diremmo: di mercato o capitalistica), per come sono, senza moralismi, senza infingimenti, senza cercare di imporre proprie e differenti regole di condotta, senza ricorrere a sistemi filosofici o teologici più o meno metafisici. Mandeville coglie perfettamente, con assoluta lucidità, il fatto che la società moderna è un groviglio di interessi contrastanti (noi diremmo: un coacervo di conflitti di interessi), molto difficile da sciogliere. Mandeville non propone soluzioni, ma una favola e discorsi paradossali; è un pensatore critico, piuttosto che un pensatore costruttivo, un uomo onesto e una mente chiara. Se guardiamo alle questioni, pratiche e teoriche, in cui restiamo impigliati ancora oggi, la sua lezione di realismo senza compromessi, totalmente laico, è però di assoluta importanza e, come si diceva all'inizio, di assoluta attualità. Una lezione apparentemente più modesta, ma forse più utile di altre teorie meno paradossali, meno licenziose, meno scandalose, e oggi tanto più alla moda. Milano, dicembre 2010

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