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di TIBERIA DE MATTEIS L'Argante di Gabriele Lavia si muove fra «il letto e il cesso» in una intelligente, provocatoria ed etimologica lettura del classico molièriano «Il malato immaginario» che approda da stasera al 27 febbraio all'Argentina, prop

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Cosaaccade al suo Argante? «Lo scrittore ha composto questa sua ultima opera quando era già moribondo e in agonia, tanto che l'ha recitata solo per quattro repliche prima di morire. Argante è, quindi, un uomo che vive la sua esistenza fra il letto della sua malattia, vera o falsa che sia, e il gabinetto in cui deve fare i suoi bisogni. L'unica cura che i medici gli somministrano consiste nei clisteri. Il potere (della medicina) si manifesta quindi mettendo qualcosa nel di dietro». Il potere fagocita l'uomo? «Qui lo piega a tal punto da farlo diventare "pazzo", come dice lui stesso e conferma anche la cameriera. In realtà se vogliamo intendere il titolo invertendo sostantivo e aggettivo possiamo arrivare a "l'immaginario malato" che tormenta il personaggio. Nel suo quotidiano rapporto con il potere, Argante si preoccupa di essere e di far vedere quanto sia obbediente agli ordini (della medicina). La sua rovina accade nel momento in cui rifiuta l'ennesimo clistere, scatenando la reazione dell'autorità, diciamo "medica", raffigurata dal prof Purgone, un dio osceno, in cui Molière vagheggiava l'idea del re». In questo spettacolo Angelica, la figlia di Argante, è interpretata da sua figlia Lucia. Come vi trovate a lavorare insieme? «È stato tutto casuale perché l'attrice che aveva quella parte mi ha disdetto a quattro giorni dalla prima per un impegno teatrale da cui non poteva liberarsi. Lucia si stava preparando per entrare all'Accademia e ho deciso di inserirla al volo. Il nostro legame è diventato molto più bello. È sempre difficile per un genitore giudicare, ma credo in buona fede che sia un grandissimo talento naturale». Quando si capisce che un giovane è adatto al mestiere d'attore? «Subito. Basta guardarlo in scena. Si avverte qualcosa di inspiegabile che c'è o non c'è. Il teatro si impara per iniziazione e non nelle scuole. Vedo che spuntano dappertutto, ma spesso gli allievi sono turlupinati in quanto fragili prede di ciarlatani. Gli insegnanti veri sono pochi, sicuramente meno delle scuole esistenti. Sconsiglio di frequentare corsi di recitazione». Ha già individuato le sue linee guida per la direzione artistica del Teatro di Roma? «Stiamo attraversando un periodo complesso per il teatro in generale e per lo stabile capitolino in particolare. Soffro del fatto che la precedente conduzione abbia già attuato le programmazioni fino al termine del 2011. Non so se avrò i mezzi per poter attivare le nuove produzioni, dati i gravi tagli sopraggiunti. Mi piacerebbe anche dare origine a una compagnia stabile di attori giovani».

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