di ANTONIO ANGELI Qualche anno fa un giovane laureato che voleva occuparsi di comunicazione aziendale ricevette un'offerta da un'importante società per sostituire, durante l'estate, una persona in ferie.
Quandoil giovanotto si presentò nella sede gli furono consegnati i «ferri del mestiere»: un bel sacchetto di gettoni telefonici e un cercapersone che, all'epoca, era un signor oggetto tecnologico. Il lavoro del laureato consisteva nell'attendere un messaggino sul cercapersone e poi, armato di gettoni, cercare un telefono e contattare la persona giusta. Il telefono cellulare? Era ancora un progetto tecnologico militare top secret, le e-mail semplicemente non c'erano, perché Internet non esisteva. Insomma chi si occupava di comunicazione aziendale era un po' come un soldato di guardia da qualche parte che, se accadeva qualcosa, dava l'allarme ai compagni che accorrevano e cercavano di risolvere il problema. Questi fatti sembrano appartenere a un passato remoto, ma ch'è chi ancora non ha quarant'anni e la carriera, più o meno, l'ha iniziata così. Una volta il mondo della comunicazione, misterioso e incompleto, privo di persone che studiavano la materia scientificamente, era dominato da «stregoni» che avevano imparato empiricamente il mestiere, anzi, ne avevano fissato loro stessi le regole. Ma una «cura» intensiva di nuove tecnologie ha profondamente mutato questo mondo, ha cambiato i rapporti tra aziende, organi d'informazione e pubblico. Una volta, prima che tutte le maggiori aziende fossero quotate in borsa e prima di Internet, nelle grandi società quasi si preferiva che non si parlasse di loro sui media. La «non-notizia» era la migliore notizia e per molte aziende avere un'immagine non proprio limpida non era un problema. Semplicemente non gliene importava niente a nessuno. Ma il Terzo Millennio ha illuminato uno scenario diverso: uno scenario fatto di trasparenza, di scambi velocissimi di dati, di grandi qualità umane e lealtà. Perché nella vita la «faccia» conta e nel mondo dell'informazione conta ancora di più. Chi si occupa di comunicazione aziendale, a tutti i livelli, farà bene a ritagliarsi uno spazio di tempo per studiare (e non solo leggere) «Niente di più facile, niente di più difficile. Manuale (pratico) per la comunicazione», di Gianni Di Giovanni e Stefano Lucchini, logo fausto lupetti editore, 171 pagine, 15 euro. Un libro prezioso che con semplicità si autodefinisce un «manuale per la comunicazione», ma è molto di più. Il bel saggio di Di Giovanni e Lucchini, due vecchi (ma solo per l'esperienza) lupi dell'informazione, è uno spartiacque, un ben marcato segno di confine tra il mondo dell'informazione di ieri, fatto di professionisti recuperati qua e là, di personaggi che «si inventavano» il mestiere e l'informazione nell'era di Internet, che si fa con tanti studi teorici, metodi scientifici, ma anche con tanto cuore e fegato. È bello nelle pagine di «Niente di più facile», un testo che si occupa di aziende e comunicazione, leggere la parola «lealtà». Un concetto che è stato troppo a lungo assente nelle dinamiche aziendali, sovrastato da «profitti», «tagli alle spese», «ottimizzazione». La battaglia della comunicazione per le aziende, per ogni azienda, di qualunque livello, è fondamentale. Questa è una delle premesse del saggio: chi non comunica è come se non esistesse. Allora si pone il problema di come comunicare: il libro «Niente di più facile» si prende la briga di cominciare dall'inizio a spiegare la professione del comunicatore che è diversa da quella del giornalista. Giornalista e comunicatore «hanno un diverso dna», si legge nel saggio. E il lavoro del comunicatore inizia facendosi le domande fondamentali: che informazione si vuole trasmettere? A chi e perché? E per queste domande la risposta non è scontata. Sulla copertina del libro di Di Giovanni e Lucchini campeggia un enorme bicchiere d'acqua nel quale affoga un manager con valigetta. Comunicare è facile, come bere un bicchier d'acqua, basta saper rispondere a queste domande. Ma se la risposta non è coerente, scientifica e corretta nel bicchiere d'acqua si rischia di affogare. E per questo il libro è corredato delle testimonianze degli indiscussi leader di questo settore: persone che hanno fatto del settore dell'informazione una scienza e che parlano, soprattutto, dei loro disastri. Come Patrizia Vallecchi, attualmente responsabile qualità sales consumer Telecom Italia, che racconta del lancio, nel '97, della prima scheda prepagata Tim. Il lancio fu perfetto, la conferenza stampa fu seguitissima, tutto andò nel migliore dei modi. Finché i giornalisti non aprirono il pacchetto allegato al comunicato stampa. All'interno c'era un telefono cellulare Tim con una scheda caricata con cinquantamila lire. In parecchi presero la cosa come un maldestro tentativo di ingraziarsi la stampa. Una sorta di corruzione. Dopo fortissimi investimenti per lanciare e pubblicizzare la novità si rischiava di rovinare l'immagine dell'azienda. Si impara dagli errori e per questo la Vallecchi racconta il fatto come un chirurgo che analizza un'operazione che rischiava di andare molto male. Il vero problema fu che il regalo, che serviva semplicemente per far provare ai giornalisti quello di cui si era parlato, era stato consegnato senza un'adeguata informazione. La regola che Patrizia Vallecchi ne ha tratto, e che il saggio trasmette a tutti, è semplice: bisogna sempre lasciare un addetto stampa nel luogo della conferenza anche dopo la fine dell'evento. Gli autori, offrendo un'enorme mole di indicazioni tecniche, su tattiche e strategie della comunicazione, si pongono, ad un certo punto, una domanda semplice. E non è una domanda che riguarda il successo o l'economia. Il quesito è: per il comunicatore è possibile mentire? La risposta data dagli autori è secca: no. Perché nonostante il lavoro oggi sia un po' come una guerra, nella quale, come in amore, tutto è permesso, quel «tutto», per fortuna, non comprende la menzogna.