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Chi comprerà oggigiorno un cappello a cilindro, una lobbia o una bombetta? O una paglia estiva come la portava Thomas Mann al Lido di Venezia? Tanti, tanti cappelli sono ancor oggi nell'antico negozio del signor Viganò in via Minghetti, a Roma.

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Lìsi celebrava, sopra le altre, la gloria italiana del Borsalino, che da una fabbrichetta piemontese si diffuse in tutto il mondo segnando col feltro grigio floscio un ineffabile punto mediano tra la distinzione e l'eleganza. Scomparve, il negozio napoletano di Balbi, come tanti altri negozi che gli somigliavano, a Roma, a Milano, altrove. Lo portò via il tempo che fu detto del «miracolo economico». Girarono più soldi ma, progressivamente, si comprarono meno cappelli. Sempre meno, sempre meno, lungo gli anni Sessanta. E perché? Una risposta bizzarra sarebbe questa: niente cappello per evitare di toglierselo. Perdio, più a nessuno chapeau-bas. Né alle signore, né al capufficio, né al professore e nemmeno al silenzio che può accogliere i tuoi passi in chiesa. Eppure, per tutta la prima metà del Novecento, anche molte teste calde erano andate a capo coperto. Viste dall'alto, le adunate politiche degli anni Venti, in Europa come in America, sono spianate di cappelli a larghe tese, assembramenti di feltri, specialmente grigi. Ma anche le signore, o molte signore, portano cappelli o cappellini e si fermano dinanzi alle vetrine della modista, colei che cappelli e cappellini li fa o li aggiusta secondo la mode, la moda. Però, già dagli anni Dieci serpeggia con rinnovata vivacità un'insidia: ed è l'idea che un bel cappello, certo in aggiunta a tante altre cose, designi un tipo che socialista non è. Obiezione: «Ma se Labriola portava un cappello a ruota, come il notaio della canzone "Signorinella"!». È vero, ma Antonio Labriola se n'era già andato negli anni Dieci, quando i socialisti ancora non s'erano affacciati in Europa a un protagonismo senza precedenti. «Cappiello!! Cappiello!!» - urlavano minacciosi nelle campagne del nostro Meridione i braccianti contro i peggiori «galantuomini». Ma quelle grida, quelle episodiche rivolte, sono come un ricordo secolare. Molti di quelli che negli anni Dieci vogliono cambiare il mondo vanno senza cappello e se ne fanno vanto. O portano berretti, come Lenin, che era calvo. Stalin, che aveva invece una folta capigliatura, già ai tempi dell'«ottobre rosso» la ostenta dinanzi al fotografo. E lo stesso fa lo scapigliato Trotzky. Mussolini giovane va a capo scoperto e così guida la sua rivoluzione, a trentanove anni, nel 1922. Ma subito, in quel frangente, quando viene a patti con il re e diviene capo del governo, si piega alla redingote e alla tuba. I fascisti avranno un loro cappello, oltre il fez. E quanto al duce, egli entrerà nell'immaginario della sua epoca anche per l'incredibile varietà di copricapo che gli toccarono, o che scelse: paglietta dura, cappello piumato da bersagliere, bombetta, cilindro, copricapo da aviatore, da automobilista e da motociclista, cappello fascista da caporale d'onore della milizia, casco coloniale, elmetto. Dopo la caduta, o più precisamente dopo che un commando tedesco lo liberò dalla «prigione» del gran Sasso, si presentò a Hitler indossando un feltro nero, casualmente adatto a quel momento. Dal canto loro i giapponesi interpretarono la sconfitta diversamente. Infatti i plenipotenziari dell'imperatore salirono sulla portaerei di Mac Arthur in abito da cerimonia «con le code» e in cappello a cilindro. Naturalmente, il cappello resta ancor oggi a proteggere dal freddo o dal caldo, ma come segnalatore di status o di stati d'animo è abbandonato, o quasi. E pensare che segnò, per esempio, il passaggio dall'infanzia alla puerizia, tant'è vero che quello è il tempo dei cappelli di carta, degli elmi con cimiero di cartone, e così via. Ma segnò anche il passaggio dalla puerizia agli annunzi dell'adolescenza. Diventando pienamente ragazzo, un monello di strada, (uno scugnizzo napoletano, nella mia esperienza) trovava da qualche parte, magari rubandola, una coppoletta da mettersi in testa, e così poteva stare nelle compagnie dei più grandi. Nelle fotografie ottocentesche delle strade di città - anche russe, anche londinesi - tutti sono a testa coperta e tutti realmente lo erano fuorché quelli che non avevano testa: pazzi e pazzoidi. La qualità e la foggia di un feltro distinguevano un direttore generale da un impiegato d'ordine, altrimenti detto «alunno d'ordine» nelle amministrazioni statali. Giovanni Ansaldo - che fu un autorevole, grande giornalista, ma per necessità, perché se no si sarebbe dato ad attività meno intense - era un uomo alto e solenne, che portava il cappello a lobbia: e salutava, quando salutava, avvicinando al feltro il pollice e l'indice della destra, come a volersi scoprire, ma non si scopriva. Pittori e scultori portavano il basco che fu altresì il copricapo del leader socialista Nenni. Ma il rivale di questi, Pertini, giunto quasi ai novant'anni, una volta in montagna orgogliosamente mi disse saltando una «p»: «Vado senza capello!». Certe differenze si davano in ogni professione: avvocati, medici, docenti, eccetera, essendo comune la distinzione tra compostezza e disinvoltura, atteggiamenti che, superfluo dirlo, trovano un'infinità di declinazioni. Francis Scott Fitzgerald nel suo romanzo «Tenera è la notte», dice dell'«obliquità del cappello d'un uomo che non vuole essere riconosciuto». Ma un cappello tenuto «sulle ventitré», ovvero inclinato da una parte, cioè «alla brava», come usava negli anni Trenta e fino a Humphrey Bogart, trasmetteva un messaggio coinvolgente perché ambiguo: allegria, dissenso, fronda, provocazione, spigliatezza, spirito polemico. Ma anche amore, mia cara.

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