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segue dalla prima Ha ripreso possesso della sua mente, poi ha fondato l'Accademia della Follia, una formazione teatrale che dal capoluogo friulano si sta estendendo ad altre città. E che porta in scena chi ha vissuto disagi mentali.

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Frequentoil liceo, divento comunista, comunista come può esserlo chi ha come background la tradizione cattolica. Fondo una comune. In una città di destra è inevitabile lo scontro fisico con i fascisti. Mi picchiano, finisco in galera. Ci resto un anno, cercano di estorcermi nomi per trovare i colpevoli della strage di Peteano. Non li so, non parlo, faccio il duro, rompo il naso ai neri, mi barrico con altri detenuti. Poi vengo prosciolto da ogni accusa ed esco». Insomma, il ritorno alla vita normale. «No. Allora, proprio allora, sono andato fuori di testa. Ho perso la coscienza di me. Davanti al semaforo stavo fermo dieci minuti. Verde, rosso, verde. E passavo col rosso. Mi mettono in manicomio. Non ricordo altro. Se non che un tizio, un volontario, mi porta sul palco del teatrino dell'ex ospedale psichiatrico. Perché nel frattempo era cominciata la rivoluzione Basaglia. Sicché vomitavo, mi tagliavo, camminavo sui vetri. Ma sul palco ero felice. Qualcuno mi diceva: sei geniale». Il teatro come terapia. «No, non quella che usano gli psichiatri. Quella è una cura che non conduce sul palcoscenico, è un'operazione interna al rapporto del malato con gli infermieri e con i medici. Io, con gli altri matti che recitavano con me, chiamavo qualcuno che ci ascoltasse. Creavamo un pubblico. Battevano le mani. Cominciai a ricompormi. Continuai col giochino della recitazione. Già, un gioco, non un lavoro e infatti in francese si dice jouer. Stavo sempre meglio». Che cosa interpretava? «Scrivemmo un "Prometeo, storia di potere e ribellione". Usavamo un linguaggio archetipico, con le r e le p aggressive. Sotto i riflettori mi agitavo, fumavo, agli spettatori piacevano i suoni e le sensazioni che infondevo. Non era teatro, forse era un fenomeno da baraccone. Ma per me funzionava. In seguito Maurizio Soldà, un operatore teatrale che aveva fatto un corso con Grotowsky, mi fece da maestro. E tutto fu in discesa. La formazione di un gruppo con l'Ospedale Psichiatrico Provinciale, il matrimonio con una psicologa che mi ha dato tre figli, la creazione, nel '90 a Rimini, della Accademia della Follia, insieme con la mia seconda moglie. Ora viviamo un momento magico. Contiamo di allargare l'Accademia, recitiamo il testo della Maraini, abbiamo una prima attrice, Sabrina Nonne Wagner, che scava nella profondità umana del gruppo». Chi è stato per lei Basaglia? «Un omone affabile, ma molto preciso nel pretendere. Ho litigato più di una volta con lui, quando non c'erano ancora i Centri di Salute Mentale e noi ex internati volevamo prenderci certi spazi del manicomio e della città che lui voleva restituire al Comune. Aveva ragione, doveva essere istituzionale nel periodo di rodaggio della 180. La sua grandezza? Considerare il malato, non la malattia. Perché i matti sono uomini e devono avere un progetto per tirare avanti». Lidia Lombardi

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